Abbiamo delle proposte per la città di Bologna

In queste settimane, ci siamo chiesti cosa sarà del settore culturale nel breve termine soprattutto quando tutti gli altri settori si apprestano a tornare al lavoro e a una vita simile a quella che avevano lasciato qualche tempo fa. Molte idee girano nel mare di internet, con progetti più o meno realizzabili e visioni condivisibili, noi invece siamo voluti partire dal territorio della nostra città che conosciamo maggiormente per immaginare, come legare attività, pensieri e idee, non solo al fine di rendere l’individuo soddisfatto, ma di far accrescere una sensibilità collettiva sulla tematica dell’intrattenimento culturale. La nostra città ha la grande fortuna di poter vivere in un continuo melting pot di storie, sfumature e persone, necessarie per coltivare il tessuto sociale e progredire in tutte le attività commerciali; non esiste lavoro senza potersi svagare e non esiste la possibilità di svagarsi senza lavoro, così come non esiste una cultura di serie a e una cultura di serie b legata alle attività di intrattenimento di piccole o grandi realtà.

Ci vuole quindi, una città in grado di soddisfare i bisogni di socialità, lavoro ed ecosostenibilità sempre e comunque nel rispetto della sicurezza collettiva. La manovra di pensiero creativo spesso si limita alla situazione in cui stiamo vivendo e molte volte capita di fermarsi, intimoriti di quello che potrà essere o meno la fattibilità della proposta. In questo progetto, abbiamo voluto lanciare qualche input, adattabile a quelle che saranno le regole imposte e aperto a ogni soluzione di collaborazione da parte delle realtà più attive del territorio attraverso la propria formazione culturale. La nostra è una sfida rivolta prima di tutto a noi stessi, che come tante persone, hanno bisogno di poter immaginare un nuovo modello per l’intrattenimento culturale del nostro tessuto urbano.

NB: non siamo architetti, ingegneri o urbanisti, sappiamo che ci potrebbero essere delle criticità in quello che abbiamo presentato, magari lo cestiniamo, magari lo adattiamo, sicuramente dobbiamo discuterlo.

“Un rione è una suddivisione territoriale interna a una città o a un centro abitato, delimitata da confini più o meno precisi e dotata di caratteri propri che ne sottolineano l’identità (dal punto di vista geografico, storico, sociale, economico, ecc.).”


Partendo dal concetto di rione, più volte oggetto del dibattito nelle ultime settimane, abbiamo simulato la città divisa in 12 rioni diversi; sarebbe bello immaginare ogni rione con la propria proposta, con le proprie caratteristiche e con i propri spazi. Questa nostra immagine/divisione non è definitiva e non implica la nostra idea, quello che vedrete è uno stimolo, ma noi abbiamo già lavorato a un progetto ancor più delineato.


BARCA • BOLOGNINA • CORTICELLA • COSTA SARAGOZZA • MAZZINI • MURRI • PILASTRO • SAN DONATO • SAN FELICE • SAN MAMOLO • SANTO STEFANO • UNIVERSITARIO

Pattern HMCF

Viviamo nella città delle torri, anche perchè un tempo erano quasi 100, ora ne sono rimaste 24. Fanno parte dell’identità della nostra città, rappresentano una delle istituzioni locali insieme ai portici e per noi sono un segno chiaro e identificativo di Bologna.

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In un momento del genere, la ripartenza culturale può partire dal senso di comunità. Dalle piccole e grandi realtà che nel corso di tutto l’anno svolgono attività sul territorio e hanno la conoscenza degli spazi ma non solo, spesso formano persone e rappresentano sfumature della società. 

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Siamo partiti dalla possibilità tanta discussa di sviluppare il concetto di rione per la nostra città e questo è una delle basi su cui costruire le idee per il futuro prossimo; tanti rioni per noi significa non solo quartieri, ma diverse personalità, associazioni di luogo e realtà artistico/culturali.

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Le comunità vanno riempite d’idee, manifestazioni e la loro sopravvivenza nel corso del tempo parte anche dalla necessità di sapersi rinnovare sempre. Le comunità restano vive se hanno la forza di cambiare e la presunzione di poter crescere internamente nella consapevolezza delle loro persone. 

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La città ha bisogno delle sue comunità, ma le sue comunità hanno bisogno della città. Serve scontrarsi per moltiplicarsi, senza mai dividersi. Dall’incontro tra comunità e città, nasce il nostro progetto.

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La nostra idea si chiama PATTERN. Le comunità si aprono alla città e si legano. Pattern è un termine inglese, di uso diffuso, che significa “disposizione”. Tuttavia viene utilizzato per descrivere, a seconda del contesto, un “disegno, modello, schema, schema ricorrente, struttura ripetitiva” e, in generale, può essere utilizzato per indicare la ripetizione di una determinata sequenza all’interno di un insieme di dati grezzi oppure la regolarità che si osserva nello spazio e/o nel tempo.

1.2

2

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Quindi perché una città secondo il modello PATTERN?

Sono una realtà attiva nella cultura cittadina

Ho la possibilità di proporre contenuti in sicurezza.

Sono un’attività commerciale restata chiusa due mesi

Ho la possibilità di ampliare le mie possibilità oltre la mia struttura.

Sono una persona che ha bisogno di svagarsi dopo aver lavorato

Possono soddisfare il mio bisogno in sicurezza senza rinunciare a musica, teatro e cinema.

Sono il quartiere Pilastro

Posso far conoscere la mia storia, le mie persone a un numero di persone superiore.

Pattern è condivisione. Pattern è green. Pattern è sicuro. Pattern è creativo. Pattern è semplicemente l’idea di una città aperta.

3.3

Ok, però senza eventi come potrebbe funzionare quest’applicazione? C’è qualche contenuto extra? 

Come attività extra, abbiamo pensato per ogni rione di raccontare la propria identità con delle sculture che grazie a PATTERN avranno la possibilità di farti accedere direttamente con il telefono ad audiolibri, contenuti musicali extra realizzati nella zona o scritti informativi sulla storia del rione.

Questi contenuti possono essere realizzati e coordinati ogni settimana da varie realtà, scrittori o musicisti. Magari recuperando registrazioni passate, scritti inediti e aneddoti di strada. In foto abbiamo messo Piazza San Marco a Venezia dove qualche giorno fa è apparsa la seguente scultura. Immaginateci un QR code che grazie all’applicazione PATTERN ha la possibilità di svelarvi i contenuti del rione in questione.

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Vi facciamo un esempio di contenuto editoriale che si può scaricare grazie a PATTERN?

A Bologna di mattina quando nessuno se l’aspetta c’è molta nebbia. Il cielo è grigio ma non scuro, consapevole che con il passare della giornata in qualche modo uscirà il sole. Nell’ultima periferia cittadina, a pochi passi dai centri commerciali e dalle prime frazioni in provincia lo spazio temporale viene tagliato dai mezzi pubblici e dal silenzio che lo smog accresce parallelamente al traffico. In fondo al quartiere San Donato, nella parte Nord-Est della città sorge il Pilastro quello che storicamente oltre a essere il primo contatto con l’area metropolitana può considerarsi uno degli organi più importanti della popolazione locale. (continua a leggere…)

Questo per il rione San Donato dove sorge il Covo Club e puoi ascoltarti il concerto dei The Drums del 2010 e leggerti un racconto del quartiere del 2016, ma non solo. Tante sono le personalità e le associazioni che si muovono nei rioni durante tutto l’anno e rendono il tessuto sociale attivo e identificativo all’interno degli spazi.

Quindi per farla breve per noi che abbiamo letto tutta sta roba: PATTERN è un applicazione in grado di farti prenotare agli eventi, farti girare la città nel rispetto dell’ambiente, darti la possibilità di invitare amici e farti scoprire zone della città che non conosci. Ma non solo però, ha la capacità di non limitarsi al telefono per la sua ambizione a immaginare un senso di comunità condiviso, ecosostenibile e in piena sicurezza.

3.2

Qualcuno dirà che PATTERN è una semplice applicazione che mette in contatto delle persone all’interno della città eppure vuole avere l’ambiziosa sfida di tener fede a tutte le problematiche che la situazione ci mette di fronte. Sicurezza, condivisione e visione, devono essere le regole per poter far ripartire il settore culturale senza compromessi. Dai territori, che noi abbiamo voluto chiamare rioni e dalle piccole e grandi realtà, che noi abbiamo voluto chiamare comunità, nasce la città in cui vivremo ogni giorno per i prossimi anni. Come abbiamo scritto in precedenza, questo progetto vuole essere uno stimolo al dibattito e prova a proporre alcune visioni a una nuova socialità per la città di Bologna. Siamo consapevoli delle difficoltà di comprensione della situazione in cui stiamo vivendo da qualche mese a questa parte e siamo altresì convinti che le proposte di tutte le attività siano fondamentali. Abbiamo ritenuto necessario immaginare qualcosa del genere soprattutto visto lo scenario in cui stiamo metabolizzando il sistema culturale contemporaneo; quello che succederà domani non possiamo saperlo e davanti a una moltitudine di doveri rispettabili abbiamo semplicemente rivendicato il diritto a non limitarci, pur rispettando tutto ciò che ci circonda.

Culturit Bologna: l’importanza della formazione

Intervista a Chiara Cenerini e Francesca Fabbri a cura di Francesco d’Errico

Culturit nasce nel 2015 a Milano e si diffonde presto in tutta Italia, dando vita a un fitto network di associazioni, oggi diffuse in tutta Italia da Trento a Napoli. Associazione composta da studenti universitari, professori e professionisti che ha come obiettivo principale quello di favorire la transizione scuola lavoro attraverso la valorizzazione del patrimonio culturale italiano, fornendo un supporto alle realtà del settore a livello di gestione, promozione, sviluppo, grazie ad un approccio multidisciplinare che valorizza tanto gli aspetti scientifici ed economici quanto quelli umanistici e artistici dell’impresa culturale.

Nel 2016 grazie a Chiara Cenerini, laureata in Bocconi e adesso studente GIOCA, e a Francesca Fabbri, laureata in Beni Culturali e adesso studente di valorizzazione del patrimonio storico e artistico all’Alma Mater, Culturit approda anche a Bologna, realtà che conta oggi una squadra di ben 34 membri e realizza diversi progetti ed attività sul territorio. Con Chiara e Francesca abbiamo parlato di cosa significa fare network con le altre realtà cittadine, del rapporto tra zona universitaria e cultura, di Riforma Franceschini e tante altre cose.

Che cos’è CulturIt? Dove e quando nasce?

C: siamo un network di associazioni non profit apartitiche ed apoliticche, composte da studenti, professori e professionisti volontariLa nostra struttura prende spunto dalle young entreprises, associazioni universitarie che forniscono consulenza alle aziende, ricevendo in cambio formazione professionale. Il nostro obiettivo, invece, nasce dalla consapevolezza che in Italia non ci sono realtà che fungano realmente da ponte tra l’università e il mondo del lavoro, in particolare nel settore cultura. E’ per rispondere a questo bisogno che nel 2015 nasce il Network Culturit, che persegue, appunto, entrambi questi scopi: offrire formazione professionale agli studenti e metterli a contatto con realtà lavorative del settore e valorizzare il patrimonio culturale italiano. Oggi siamo presenti in ben 11 Università Italiane.

Come funzionano le “locali”? C’è un coordinamento dall’alto?

C: ogni locale è divisa in diverse aree, c’è l’ area “knowledge partner” che si occupa di stringere rapporti con professori e professionisti , c’è l’area “risorse umane” che si occupa del reclutamento e del corretto inserimento dei membri, l’area “formazione” che crea eventi ad hoc per i membri di Culturit finalizzati alla formazione dei membri dell’associazione, l’area “comunicazione” che si occupa di comunicare con l’esterno ma anche, cosa molto importante, di gestire la comunicazione interna tra tutte le locali, l’area “progetti”, che si occupa del core business di Culturit, cioè dei progetti di consulenza che noi realizziamo per le realtà culturali e che ci permettono di imparare ed acquisire competenze e conoscenze. L’area “progetti” è un’area fluida che si crea in maniera trasversale rispetto alle altre aree, mi spiego; chi è parte di un’area di quelle sopracitate, può entrare a far parte dei singoli team di progetto che si creano ad hoc per ogni consulenza ad un cliente esterno. Inoltre Culturit ha anche un giornale online, “Culturit Review” su cui pubblichiamo e scriviamo articoli inerenti al mondo dei giovani e della cultura e la “Culturit University”che è l’apice della nostra formazione interna: due volte all’anno, tutti i componenti delle singole locali si riuniscono per frequentare degli eventi di formazione e di team building. Per esempio quest’anno a Marzo, abbiamo organizzato la 4° Culturit University a Milano, dedicata al tema delle politiche culturali in Italia e in Europa per lo sviluppo e la valorizzazione del territorio.

Per quanto riguarda il coordinamento, la struttura locale viene rispecchiata all’interno di un team nazionale: c’è infatti un responsabile per ogni area a livello nazionale che coordina tutti i responsabili delle relative aree delle varie locali, questo meccanismo garantisce omogeneità tra le attività delle varie locali, senza però ostacolare le specificità dei vari territori in cui siamo attivi.

Veniamo a Culturit Bologna. Quando è nata e qual è la vostra esperienza  finora?

F: Culturit Bologna è nata nel Dicembre del 2016 e fin da subito ci siamo chiesti: cosa può differenziare Bologna dalle altre realtà? Quali sono le sue specificità? Dal punto di vista universitario, innanzitutto, possiamo usufruire di una grandissima interdisciplinarietà. In altre città non c’è la possibilità di avere così tante facoltà diverse da cui attingere e coinvolgere studenti. La coesistenza e la collaborazione all’interno del nostro gruppo di studenti provenienti da facoltà anche molto diverse tra loro, da economia a beni culturali, passando per scienze politiche e architettura e design, arrivando a giurisprudenza, è sicuramente uno dei nostri punti di forza. Siamo partite noi due, da sole, ed oggi contiamo 34 membri. Prevalentemente svolgiamo attività di consulenza per le realtà che sono interessate, proprio come tutte le altre locali CulturIt.

Svolgiamo progetti di consulenza limitati nel tempo per Enti e Istituzioni e altre realtà del settore culturale.  Le realtà con le quali ci interfacciamo sono anch’esse caratterizzate da una grande interdisciplinarietà, in un contesto come Bologna appunto possiamo spaziare da istituzioni molto solide nel contesto bolognese a realtà giovani e nuove. Per esempio abbiamo svolto un progetto di consulenza  per TimeShift, una crew  e etichetta discografica che realizza eventi di musica elettronica, ma anche per il Mercato Sonato che, per noi, è una delle realtà più interessanti in città. Abbiamo anche collaborato con il Teatro Comunale, storica fondazione ben radicata nel territorio cittadino.

Proprio a Teatro abbiamo appena concluso un ciclo di tre workshop che abbiamo avuto l’opportunità di organizzare dopo essere risultati tra i vincitori del bando U-Lab indetto dall’Urban Center all’interno del progetto ROCK finalizzato a riqualificare la zona universitaria. “Mettiamoci all’Opera” è stato un progetto che si può etichettare di “audience development” per il Teatro Comunale. Il nostro punto di partenza è infatti stato quello di riconoscere il Teatro come uno degli attori principali all’interno di una possibile riqualificazione della zona, e di una sua apertura anche a nuovi pubblici. I tre incontri che abbiamo organizzato avevano infatti l’obiettivo di avvicinare i giovani, in particolare studenti universitari come noi, all’Opera, accostandola a tre tematiche quotidiane, in cui tutti possano rispecchiarsi, come il cibo, il rapporto uomo -donna e la moda. E’ stato interessante vedere come questo genere apparentemente lontano dal nostro mondo in realtà sia molto attuale. Per ogni serata era prevista una parte conferenziale e una laboratoriale. Al termine di queste tre serate possiamo considerarci soddisfatti, avendo raggiunto un pubblico di circa 150 persone tra le quali diversi universitari alcuni dei quali non avevano ancora avuto modo di entrare al Teatro Comunale. Il risultato più importante è stato sicuramente quello di aver invogliato persone ad andare anche a vedere le rappresentazioni in cartellone. E di fatto siamo anche rimasti sorpresi di quanti gli “abitué” del teatro si siano dimostrati disponibili ed aperti ad un dialogo con i nuovi pubblici.

Culturit Bologna: l'importanza della formazione

Parliamo di Bologna. Al di là dell’Università quali sono, dal vostro punto di vista, le sue potenzialità a livello culturale?

C: la grande potenzialità di Bologna risiede nella sua varietà di proposta culturale. Infatti, la nostra città, a differenza di altre, dispone non solo di un ricco patrimonio di beni culturali in senso stretto ma anche di una vasta proposta in termini di eventi e iniziative culturali. Molte città soffrono di un certo squilibrio; tanto patrimonio, pochi eventi e viceversa. L’offerta di Bologna, in questo senso, è molto “completa”. Per noi che crediamo in un concetto di cultura aperto e ampio, infatti, è un luogo perfetto in cui sviluppare le nostre attività.

Voi vi proponete, tra le altre attività, quella della valorizzazione del patrimonio della città. Che cosa, secondo voi, non è abbastanza valorizzato o apprezzato a Bologna?

F: partendo dal presupposto appunto che siamo fortunati a nascere in un contesto ricco di nuovi stimoli e spunti in particolare per la valorizzazione del patrimonio, trovo che un elemento che stride con questa predisposizione della nostra città siano i musei universitari, e il patrimonio storico-culturale locale. Penso che i musei universitari siano immagine della storia della più grande istituzione della città alla quale sono indissolubilmente legati. Questi spazi  dovrebbero narrare la storia della conoscenza e della ricerca ma ancora oggi purtroppo risultano di difficile accessibilità al pubblico e il loro aspetto rappresentativo viene meno. Per quanto riguarda il patrimonio culturale locale, penso alle molte chiese, basiliche e Palazzi storici che tutt’oggi giocano ancora un ruolo “satellite” nel patrimonio culturale cittadino e spesso passano inosservati, quando credo in realtà che siano una grande risorsa.

Quello del disagio della zona universitaria è da sempre terreno di dibattito e da anni si cercano soluzioni invano. Da ultimo le cose però stanno cambiando, anche grazie a una serie di proposte e interventi culturali. Secondo voi, dunque, la proposta di attività culturali può essere uno modo per risolvere questa situazione?

C: noi pensiamo che la cultura possa assolutamente essere uno strumento per risolvere la situazione della zona universitaria, al contrario degli scarsi risultati ottenuti con ordinanze varie. Noi stessi ci stiamo impegnando in questo senso in prima persona. Abbiamo fatto progetto Comunale di cui parlava prima Francesca.

Non avremmo mai preso parte a un progetto del genere se non avessimo pensato che potesse avere impatto sulla zona universitaria. Inoltre ci stiamo cimentando in una nuova tipologia di collaborazione partecipando al Bilancio Partecipativo 2018 per il quartiere Santo Stefano (in cui rientra a far parte la zona universitaria), promosso dalla Fondazione per l’Innovazione Urbana e dal Comune di Bologna. Eventi del genere consentono agli studenti di comprendere e apprezzare il valore della città universitaria in cui vivono, peraltro riuscendo anche a coinvolgere i residenti e mettere a contatto queste due categorie che storicamente non sempre vanno d’accordo.

Culturit Bologna: l'importanza della formazione

Quanto conta “fare network” con le altre realtà culturali che operano sul campo? Che rapporti avete con le altre realtà bolognesi?

F: essendo il focus principale di Culturit la formazione dei membri, credo che fare network con altre realtà culturali sia fondamentale, per ora, abbiamo avuto ottimi riscontri. Ci e’ capitato di confrontarci con realtà sia giovanili che non, di natura più o meno simile alla nostra e sono sempre state occasioni di scambio che hanno portato sempre a un reciproco arricchimento.

In generale, forse, il fatto di non avere un passato pesante alle spalle e di presentarci sempre disponibili e con grande volontà di ha spianato molto la strada e la veloce crescita del gruppo nei suoi due anni di vita ne è la dimostrazione. Molte realtà ed enti culturali ci vedono come ponte per collegarsi e arrivare agli studenti, che possono essere futuri operatori del settore. E quindi si interessano a noi e alla nostra attività.

C: sì, ci tengo anche a sottolineare una cosa. Quello della cultura non è un mercato competitivo. Se scelgo di visitare un museo non significa che io non possa poi visitarne un altro. Anzi, se, facendo l’esempio sistema della Card Bologna Musei, andandone a visitare uno, entro all’interno di un luogo che è parte sistema più complesso di cooperazione e coordinamento, probabilmente sarò poi spinto a visitarne altri, ad allargare le mie prospettive.

Usciamo da Bologna, parliamo di cultura a livello nazionale. Cosa pensate della riforma Franceschini?

C: è indubbio che siano stati ottenuti notevoli risultati con la riforma Franceschini. Il problema della riforma, e del suo modo di rivendicarla, è quello di porre l’accento soltanto sulla muscolarità dei numeri, di utilizzarla come principale criterio di valutazione. Basarsi sui numeri è importante ma non è sufficiente, non basta. Non si può effettuare una valutazione solo basata su questo; quando si parla la lingua dei numeri il rischio è quello di dimenticare e tralasciare molti altri aspetti. Servono nuovi indicatori e nuovi criteri per valutare i risultati.

F: io vorrei aggiungere una aspetto, penso che al di là dei numeri, che comunque di per sé hanno avuto risultati positivi, ad ora sia necessario porre l’accento sulla qualità della fruizione del singolo e privilegiare la tutela del bene culturale, e’ importante la salute dei beni culturali. I musei e i luoghi della cultura hanno in primis un ruolo educativo e la loro fruizione deve essere progettata con l’idea di far tornare il visitatore.

Restiamo, in qualche modo, sul rapporto cultura-numeri. Secondo voi, tra marketing e cultura che rapporto deve esserci? Sono due parole che messe l’una affianco all’altro stridono oppure è necessario che coesistano?

C: la cultura non è un prodotto come tutti gli altri. Non può essere trattato come si trattano tutti i prodotti.  Non si può usare il marketing tradizionale, quindi sì, si può dire che il marketing sia necessario ma bisogna dire che  è necessario utilizzarlo in maniera diversa rispetto agli altri prodotti ed effettuare una valutazione specifica, caso per caso.

Negli anni, tra l’altro, ci sono stati tantissimi cambiamenti: la cultura è passata da avere fondi illimitati a doversi rapportare con un mercato. E in questo senso è cambiato molto anche il rapporto tra privati e cultura. E’ tutto in via di evoluzione e bisogna seguire l’evoluzione comprendendola e controllandola, senza preclusioni e pregiudizi o preconcetti.

In conclusione, allarghiamo la prospettiva dall’Italia al mondo. Per alcuni il mondo globalizzato è nemico della cultura e tende ad appiattirla, a uniformarla. Cosa pensate di questo processo?

C: per quanto effettivamente, ormai, dovunque si vada ci sono delle forti similitudini e punti in comune, classico esempio sono Starbucks e McDonalds ovunque, non si troverà mai lo stesso museo, lo stesso palazzo e con la stessa storia di un luogo in un altro. Ogni luogo resta, comunque, un luogo caratterizzato dalla propria storia/cultura. La cultura oggi diventa uno strumento di dialogo, un aspetto che mette in luce la differenza tra un luogo e un altro. Differenza e diversità sono parole che si ha paura di pronunciare oggi. Ma la diversità è un valore nel momento in cui permette l’instaurazione di un dialogo, di uno scambio.  Dunque, il ruolo della cultura nel mondo globalizzato è centrale e non penso affatto che si appiattisca.

Con che brano volete salutarci?

L’importanza della funzione pubblica

Intervista a Roberto Grandi a cura di Francesco d’Errico

Roberto Grandi, già Assessore alla Cultura di Bologna dal ’96 al ’99 e Professore Ordinario di Comunicazioni di Massa e di Comunicazione Pubblica all’Alma Mater è, dal 2016, Presidente dell’Istituzione Bologna Musei. Per il Professor Grandi il museo è un luogo che i residenti dovrebbero vivere e frequentare abitualmente, uno spazio in cui comprendere il presente per poter leggere il futuro, in cui muoversi con la stessa naturalezza con cui si entra ed esce da H&M o Zara e non da assaltare con visite sporadiche ed eterne. Fiero della funzione pubblica della sua Istituzione e convinto dell’importanza di collaborare con le altre realtà pubbliche cittadine, il Presidente ritiene comunque fondamentale la partecipazione dei privati allo sviluppo culturale della città.

Mentre punge i “radical chic” che criticano il quadrilatero del food – che viene un po’ mal visto per via della presenza di taglieri di salumi e… l’assenza di chef stellati -, propone di affiancare simbolicamente ad esso il quadrilatero della cultura, coinvolgendo tutte le realtà pubbliche che gravitano intorno a Piazza Maggiore; dall’Archiginnasio, alle collezioni di Palazzo d’Accursio, dal  Museo Archeologico al futuro Cinema Modernissimo e alla Sala Borsa per creare “una delle più grandi concentrazioni culturali cittadine a livello globale”. Bologna secondo le sue ricerche sul City Branding della città, è percepita come una “real city” dai turisti, ma molti dei suoi luoghi di cultura risultano ancora troppo invisibili, e per verificarlo non bisogna andare molto in là per accorgersene: “Piazza Maggiore è l’esempio classico”, ci ha detto, “Non c’è neanche un cartello o una insegna che indichi le Collezioni Comunali d’arte collocate al secondo piano di Palazzo d’Accursio”.

Al di là dei musei e dello sviluppo culturale in città, con l’ex Assessore abbiamo parlato anche di rapporti tra la Cina e Bologna, di centri sociali e creatività e di come, molto spesso, purtroppo, la buona volontà negli interventi artistici contemporanei, non sia sufficiente e forse addirittura dannosa.

Presidente, l’Istituzione Bologna Musei raccoglie ben quattordici realtà museali diverse. Qual è la funzione dell’Istituzione?

La funzione dell’Istituzione Bologna Musei è una funzione di indirizzo e di programmazione dei singoli musei che ne fanno parte e che deve sempre tenere presente la nostra natura pubblica, il che comporta, tra l’altro, che non possiamo accontentarci dei soli dati quantitativi ma che dobbiamo puntare anche alla qualità e al valore della nostra offerta, tentando di raggiungere anche quella fascia di “non pubblico” di residenti che, tendenzialmente, è estranea alla vita culturale della città.

A proposito della conservazione della memoria storica, che è una delle funzioni dei nostri musei, per comprendere il nostro modus operandi, è bene approfondire. Esistono due modalità di trattare la memoria storica: uno è quello di coltivare il sentimento di nostalgia, di compiacerci soltanto di come eravamo. L’altro invece, quello che abbiamo scelto noi, è guardare il passato per poter leggere e comprendere il presente e soprattutto progettare il futuro. Come Istituzione, siamo fortemente convinti che la città possa svilupparsi e mantenere una identità forte soltanto se riesce a coniugare l’innovazione tecnologica con quella sociale e culturale e quindi se riesce a coniugare in questa maniera passato e futuro. Bologna è diventata grande in quei momenti della sua storia in cui è riuscita a unire questi due aspetti dell’innovazione ed è a questo tipo di passaggi storici che noi guardiamo con interesse nei racconti di tutti i nostri musei. La funzione del museo non è soltanto quella di conservare e fare ricerca ma è infatti anche quella di conservare per raccontare, sapendo che abbiamo diversi tipi di destinatari, turisti compresi. La segmentazione del pubblico è fondamentale per fornire a ciascun segmento un racconto diverso delle nostre collezioni permanenti ed essere così in grado di attrarli e interessarli. L’Istituzione è una cornice di progettualità che facilita i singoli musei che ne fanno parte, nell’operazione di rendere sempre più trasparente e facile da superare quella soglia che, oggi, si frappone come una barriera tra il museo e la popolazione. Ed è una soglia alimentata da variabili economiche, sociali, culturali.

Il museo di oggi che tipo di struttura è o dovrebbe essere? E quello del futuro?

Da un punto di vista ideale il museo di oggi dovrebbe essere uno spazio il più trasparente possibile, in cui inserire diversi tipi di servizi, dalla caffetteria, al ristorante, allo spazio per il merchandising, ai laboratori, il tutto attorniato da sale espositive. Purtroppo i nostri musei, a parte parzialmente MamBO, sono bellissimi edifici da un punto di vista architettonico che si presentano come una sorta di forzieri che si negano ai passanti, sono quindi il contrario di questo modello ideale appena descritto.

Prendiamo, per esempio, il Museo Archeologico. E’ stato aperto nel 1881 con una intuizione geniale e anticipatrice sui tempi: un luogo di conservazione e ricerca per educare, attraverso l’esposizione, la cittadinanza alla comprensione della storia del proprio territorio. Questo essere stati culturalmente e socialmente in anticipo sulla storia ci penalizza dal punto di vista logistico rispetto ai musei costruiti negli ultimi anni, con criteri contemporanei. Consapevoli di tutto questo dobbiamo portare avanti, con più difficoltà rispetto ai musei contemporanei, iniziative che aiutino a fare percepire volontà di apertura e trasparenza. Per questo continuiamo a pensare a una serie di iniziative e attività per ovviare a questi problemi logistici e strutturali che rendono molte delle nostre strutture meno visibili e quindi potenzialmente meno accessibili.

Anche i dati sostengono questa nostra scelta di offrire attività e chiavi di lettura differenti per attirare i diversi pubblici: degli oltre 500.000 ingressi dello scorso anno ai nostri musei, 350.000 sono stati i visitatori delle collezioni permanenti, ben 170.000 i partecipanti alle attività e eventi organizzati in queste sedi. Il museo di oggi, come dicevo, è un museo totalmente aperto, trasparente, un museo pieno di iniziative coinvolgenti e che crea continuamente occasioni al pubblico e al “non pubblico” per frequentarlo.

La struttura di MamBO, pur essendo l’Ex Forno del Pane una struttura industriale adattata a Museo, ha spazi non occupati dalle collezioni che facilitano iniziative aperte a un pubblico numeroso. Per citarene una, durante Arte Fiera, all’interno del programma di Art City, il Direttore Lorenzo Balbi ha costruito una serata con dj iniziata alle 21 e terminata alle 3 per raccontare la nuova stagione del MamBO. Per il lancio della stagione abbiamo utilizzato la metafora calcistica: la sciarpa dei tifosi di MAMbo disegnata da Cattelan, un album Panini le cui figurine da incollare rappresentano le mostre di tutto quest’anno e, nella serata, un mega biliardino e i cocktail con nomi evocativi dell’universo calcistico. Come detto è stato un evento che ha segmentato i propri destinatari: un pubblico giovane che non ha rapporto frequente con i musei ha superato la soglia e si è anche recato a visitare la mostra permanente, spesso per la prima volta.

Con strutture fisiche diverse, iniziative di questo tipo sarebbero più facili da organizzare anche se ne stiamo programmando molte, considerando che i pubblici dei diversi musei che afferiscono alla istituzione sono tra loro diversi e quindi anche le iniziative devono tenere conto sia delle caratteristiche dei diversi pubblici sia della specificità dei contenuti di ogni singolo museo. Anche se l’obiettivo della istituzione è quello di incrociare i pubblici, per fare in modo che chi oggi va solo al museo archeologico si rechi a MAMbo e viceversa e così per tutti gli altri spazi museali. In questo senso anche la Card dei musei metropolitani proposta dal Comune è un’ottima idea, e noi la portiamo avanti con convinzione. Abbiamo lanciato l’idea del “quarto d’ora accademico”: i curatori dei nostri musei propongono ai possessori della Card la presentazione narrata di un’opera del museo della lunghezza di un quarto d’ora. Quando si iniziò a parlarne feci una dichiarazione che suscitò un po’ di polemica.

Che dichiarazione? E in cosa consiste la sua idea del “quarto d’ora accademico”?

Feci una dichiarazione, nella quale dissi che, per me, il cittadino deve entrare nel museo della sua città con la stessa leggerezza con cui va da H&M o da Zara. nIl museo deve diventare parte della nostra vita quotidiana, non possiamo vivere i musei cittadini come i musei all’estero, ai quali dedichiamo visite lunghissime perché forse non avremo altre occasioni per rivederli.

Sapendo invece che la soglia d’attenzione media non dura più di 30-35 minuti e avendo a disposizione lo strumento della Card che, dopo essere sottoscritta con le varie riduzioni a venti euro, ci consente di accedere gratuitamente ai musei privati e pubblici di tutta l’area metropolitana, tra cui tutti i nostri, possiamo davvero vivere tutti i giorni i nostri musei. In pausa pranzo, dopo un panino al volo, entro e scelgo un’opera, due opere al massimo, su cui soffermarmi, di cui godere al cento per cento.

Il museo è un luogo che va vissuto e frequentato il più spesso possibile a piccole dosi. E’ spesso un pregiudizio culturale di approccio al museo che ci blocca. Su questo c’è molto da lavorare ma la Card sta dando i primi frutti positivi e ci auguriamo che divenga il regalo da fare per vari tipi di occasioni.

Fanno parte dell'Istituzione Bologna Musei:
MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, Museo Morandi, Casa Morandi, Villa delle Rose, Museo per la Memoria di Ustica, Museo Civico Archeologico, Museo Civico Medievale, Collezioni Comunali d’Arte, Museo Civico d’Arte Industriale e Galleria Davia Bargellini, Museo del Patrimonio Industriale, Museo e Biblioteca del Risorgimento, Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna, Museo del Tessuto e della Tappezzeria “Vittorio Zironi”.

Quanto è importante, oggi offrire attività ed esperienze didattiche?

Importantissimo. Per un museo pubblico è la mission più importante. Noi, come Istituzione, abbiamo una delle migliori strutture per i Servizi educativi e di mediazione culturale d’Italia. E, attenzione, didattica non significa “deportazione” degli studenti nei musei,  ma portare avanti azioni che si sviluppano a partire dalla ideazione dei percorsi che prevedono la realizzazione dei supporti didattici, l’allestimento degli spazi laboratoriali, la selezione e il reperimento dei materiali fino alla gestione dell’esperienza, possibilmente unica e memorabile per chi la sperimenta.

I servizi offerti lo scorso anno hanno interessato 90.000 giovani. Penso, per esempio, al nostro Museo della Musica che fa addirittura attività dai 0 ai 36 mesi e che opera anche andando direttamente nelle scuole. Il “non pubblico” deve essere il futuro pubblico, quello dei piccoli e dei piccolissimi o dei pubblici culturalmente e socialmente distanti, è un “non pubblico” che va stimolato, incuriosito, formato. Dobbiamo essere consapevoli che è una responsabilità che un museo pubblico non può delegare ad altri. Formare e includere sono obiettivi da perseguire con costanza e convinzione.

MAMbo_Maurizio_Cattelan_Strategie_1990

MAMbo Maurizio Cattelan Strategie 1990

Cosa pensa dell’utilizzo della realtà aumentata e, più in generale, delle esperienze legate all’utilizzo della tecnologia all’interno dei musei? Sono qualcosa di realmente innovativo e stimolante o servono soltanto a staccare più biglietti?

Innanzitutto bisogna distinguere l’utilizzo artistico, ossia quello di quegli artisti che lavorano con il digitale, da quello didattico e narrativo. Per parlare del primo aspetto facciamo riferimento principalmente al nostro museo di arte contemporanea dove pratiche di questo tipo sono parte dell’offerta artistica. Una prima vetrina la proporremo dal 22 giugno all’11 novembre nella mostra “That’s It” dove Lorenzo Balbi ha selezionato 55 artisti italiani nati dopo il 1980. Una bella occasione per vedere come questi artisti si confrontano con quelle nuove tecnologie a cui si sono dovuti adattare gradualmente durante la loro vita.

Per quanto riguarda il secondo utilizzo, ossia i supporti tecnologici e il digitale come strumenti didattici e narrativi, non abbiamo ovviamente nessun preconcetto, anzi ci piacerebbe avere risorse per sperimentarli con continuità, senza farci abbagliare dalla tecnologia in sé, ma considerando proposte in cui forma e contenuto siano intrecciati per racconti che attraverso i diversi registri espressivi possano avvicinare, interessare e coinvolgere diversi segmenti di pubblico.

Quanto è importante per la realtà pubblica collaborare anche con il privato?

E’ una domanda che ne implica una seconda. Quanto è importante per il privato collaborare con il pubblico? Quanto è importante per il privato partecipare con il pubblico allo sviluppo culturale della città? Se la risposta fosse in entrambi i casi positiva, la società ne guadagnerebbe. Detto questo, per quello che ci riguarda, siamo  interessati non tanto a chiedere ai privati mere sponsorizzazioni ma  proposte più coinvolgenti: ai privati domandiamo la disponibilità a fare progetti insieme.

Il rapporto con loro non può essere più quello di una volta, “io decido che cosa fare e tu paghi”, è una dinamica vecchia e superata. Noi al privato proponiamo di realizzare delle attività culturali insieme perché anche lui può e deve partecipare allo sviluppo culturale della città.

Che questa operazione, poi, debba rendere al privato in reputazione e in immagine è ovvio e normale: d’altra parte deve renderlo anche alla istituzione pubblica. Si deve instaurare un rapporto caratterizzato da progettualità, non un rapporto “di pronto cassa”. Sicuramente è un percorso più complesso, più dispendioso e più lungo da realizzare ma se viene portato avanti con convinzione e in sintonia, conduce a grandi risultati duraturi nel tempo. Se poi le norme ci aiutassero maggiormente attraverso politiche di detassazione, come negli Stati Uniti, i risultati sarebbero maggiori. In ogni caso le istituzioni pubbliche devono avere lo sguardo lungo.

Museo Civico Medievale Bonifacio VIII

Lei si occupa di comunicazione. Oltre a essere stato Professore Ordinario di Comunicazioni di Massa e Comunicazione Pubblica all’Università di Bologna. Quanto conta la comunicazione nel settore cultura in generale e più in particolare per i musei? Quando si pensa all’Italia si pensa sempre a una realtà in cui sotto il profilo comunicativo il settore museale sia arretrato. E’ un’impressione pregiudizievole?

Ogni servizio, se non viene comunicato in maniera efficace, non raggiungerà i destinatari per cui è stato creato. La comunicazione è parte integrante del servizio. Da qui lo sviluppo della Comunicazione Pubblica degli ultimi anni. I soldi spesi per la comunicazione non sono soldi buttati via, non sono la ciliegina sulla torta di cui si può fare a meno, anche se quando si deve tagliare, non solo nel settore pubblico, si inizia tagliando la comunicazione. Se si ha una proposta di qualità ma nessuno la conosce,  averla serve unicamente al proprio narcisismo autoreferenziale. Piazza Maggiore in questo senso, purtroppo, è  un esempio da manuale. E’ circondata da tantissime proposte culturali e non c’è neanche un’indicazione. Il turista si può trovare in Piazza Maggiore e non c’è una insegna che gli comunichi la presenza, per esempio, delle collezioni comunali d’Arte al secondo piano del palazzo che probabilmente in quel momento sta guardando.

Per rispondere alla seconda domanda direi che, in Italia, nei confronti della comunicazione pubblica vi sia un pregiudizio di tipo culturale. Questo pregiudizio è nato, possiamo dirlo, con la formulazione della carta costituzionale. Chi ha scritto la carta aveva conosciuto come comunicazione da parte dell’ente pubblico, solo la propaganda del regime fascista. Da qui  la reticenza a porre nella carta costituzionale il diritto dei cittadini ad essere informati dalla pubblica amministrazione. Il pregiudizio culturale nei confronti della comunicazione fa riferimento anche alla presenza minoritaria del pensiero laico in Italia. Le due culture storicamente dominanti –quella Cattolica e quella Comunista- hanno sempre avuto una concezione di comunicazione come propaganda, piuttosto che come scambio e dialogo.  Quando ho iniziato a insegnare comunicazioni di massa nel neonato Dams nella prima metà degli anni Settanta, ero guardato come un intruso dal mondo accademico e una persona strana con competenze poco chiare dagli altri. Successivamente ho trascorso tutto il 1978 a Philadelphia, all’Annenberg School of Communications della University of  Pennsylvania, al tempo il più importante centro di ricerca e insegnamento della comunicazione nel mondo.

Per comunicare è necessario avere dei contenuti, sapere chi sono i destinatari, individuare le modalità più efficaci per raggiungerli. Dal punto di vista dei beni culturali l’Italia ha il contenuto più importante del mondo, ma Comunicare è riuscire a raccontare quello che si ha. Il nostro paese su questo è arretrato. All’eccellenza dei beni culturali corrisponde una comunicazione male strutturata e organizzata.. Sicuramente la mancanza di una gestione organizzata a livello nazionale che comunichi i tratti identitari culturali del nostro Paese all’estero depotenzia gli sforzi frammentati e non sempre efficaci delle singole regioni e dei diversi comuni. In un mondo globalizzato servono strategie che abbiano una massa critica per incidere.

In questo senso si cita sempre l’esempio delle autostrade francesi in cui si vedono promozioni e indicazioni continue. Quando poi si esce dall’autostrada per andare a visitare i luoghi indicati ci si trova spesso davanti a situazioni non all’altezza della aspettativa creata dalla comunicazione. Ecco, lì a volte eccedono per eccesso, noi sicuramente eccediamo per difetto. La concentrazione di beni culturali che abbiamo ci porta a darli per scontati, a pensare di non doverli curare perché ci sono sempre stati. Purtroppo in questa maniera siamo noi italiani per primi che non apprezziamo ciò che abbiamo, lo consideriamo con uno sguardo superficiale.

E qual è la situazione di Bologna dal punto di vista della comunicazione?

Cinque anni fa ho coordinato una ricerca oggi reperibile sul sito dell’Urban Center, dal titolo “City branding project”. Il presupposto era la necessità di definire meglio l’identità della città, prima di comunicarla all’interno e all’esterno. Pensai che prima di pagare un’agenzia per definire il racconto attraverso il quale promuovere la città, fosse necessario verificare la percezione che i vari pubblici avevano e quindi i racconti che già popolavano la rete.

Abbiamo utilizzato varie metodologie di analisi e realizzato una sentiment analysis dei post associati alla parola “Bologna”. Ciò che è emerso immediatamente è la considerazione che gli stranieri avevano di Bologna come una perla nascosta. Si domandavano perché veniva fatto di tutto per tenerla nascosta, pur essendo molto bella. L’altra conclusione tratta faceva riferimento al fatto che gli stranieri apprezzavano Bologna perché la percepivano come una “real city”, una città che non ti fa sentire turista, come avviene in città quali Firenze e Venezia.

Lo scorso Aprile abbiamo ripetuto la ricerca, utilizzando gli stessi parametri e metodi e l’aspetto più rilevante è che a distanza di 5 anni, abbiamo riscontrato una maggiore consapevolezza dell’offerta culturale della città e uno spostamento di interesse dal cibo alla cultura. In questo senso si sono visti i risultati di un lavoro di comunicazione e di promozione molto forte che ha caratterizzato l’operato del Comune negli ultimi anni. E’ un lavoro che deve essere sempre guidato dalla consapevolezza che il tratto identitario di una città che vuole essere percepita come una città vera, ossia una città dove ci si sente a casa e liberi di visitarla senza le pressioni del turismo di massa impone scelte che abbiano come bussola la qualità. Qualità della accoglienza. Qualità dei servizi. Qualità della promozione. Qualità delle proposte culturali. Un traguardo difficile da raggiungere e ancora più difficile da mantenere.

A proposito di turisti e di sviluppo, la città può davvero contare sulla proposta culturale come elemento di crescita economica e sociale?

Io penso che la città debba lavorare sulla cultura come elemento strategico del proprio sviluppo. Questo era il senso che avevamo dato alla nomina di Bologna Città Europea della Cultura. Un anno di eventi di qualità, l’apertura di molti spazi culturali ma, soprattutto, un processo di crescita che individuasse la cultura come il tratto identitario più forte della città negli anni seguenti. Purtroppo quest’ultimo aspetto non è stato perseguito.

Ma per creare un’economia della cultura c’è bisogno di strutture organizzate: l’ economia della cultura non si fa con le sole esposizioni e coi festival. A tal proposito mi viene in mente un’analisi che feci con Umberto Eco ormai tanti anni fa sulla città di Ferrara che, al tempo, vantava delle mostre eccezionali al Palazzo dei Diamanti, un’offerta espositiva invidiabile, che però attirava su di sé la quasi totalità dei fondi destinati al settore cultura. Quello che emerse dalle ricerche fu che chi voleva fare impresa culturale in città non aveva risorse a disposizione. E’ necessario trovare un equilibrio tra iniziative culturali e organizzazione delle condizioni per lo sviluppo di imprese culturali e creative. A Bologna abbiamo tutte le competenze per offrire questa opportunità ai giovani e molto si tata facendo, si tratta in ogni caso di coordinare meglio le politiche di accompagnamento di questo percorso.

E per quanto riguarda l’aspetto sociale?

Per quanto riguarda l’aspetto sociale legato alle politiche culturali l’Unione Europea dedica la maggioranza dei fondi ad iniziative culturali con una forte valenza di inclusione sociale. La maggior parte dei fondi europei per la cultura, vengono dati sotto questa voce.

Intendere la cultura come strumento di inclusione significa rivolgersi ai “non pubblici”, ai nuovi cittadini, a chi non ha rapporto con la cultura, soprattutto tramite le biblioteche, i musei e altre attività di avvicinamento. Tra pochi mesi a Bologna partirà un grande progetto che coinvolgerà le istituzioni culturali, a partire dai musei civici, in un progetto di sviluppo di iniziative culturali legate alla inclusione sociale e allo sviluppo di nuove competenze. Questo è importante perché chi, per qualsiasi motivo, non partecipa alla vita culturale della propria città si isola, si definisce nel proprio particolare. Il concetto di collettività è costituito da un insieme di valori, ma anche di opportunità di esprimere questi valori insieme. Questo aspetto sociale e collettivo acquista ancora più importanza con lo sviluppo dei social media.

In che senso?

Il grosso limite dei social è che ciascuno si sente comunità solo coi propri simili, rimane nella sua cerchia di amicizie virtuali. Nel territorio che viviamo abbiamo contatti con tante persone che fanno parte virtualmente di altre comunità. Questa appartenenza di ciascuno di noi contemporaneamente a più e diverse comunità virtuali e a una stessa comunità territoriale pone problemi nuovi.

La logica dei media digitali del “peer to peer”, della condivisione, “dell’always on”,  ha indubbiamente degli aspetti positivi, ma talvolta rende difficile percepire il significato di essere parte anche della comunità territoriale composta di persone con cui si sente principalmente un senso di estraneità. Il museo deve riuscire, insieme alle altre organizzazioni culturali, a dare spessore al senso di comunità, in primo luogo del territorio. Il rischio di una disgregazione sociale molto forte, di un isolamento individuale di persone che vivono male, frustrate e rancorose è reale.

Collezioni Comunali d’Arte Sala Urbana particolare

Quali sono i vostri rapporti con le altre grandi realtà museali della città o comunque , più in generale, con le altre realtà, pubbliche e private, del settore cultura?

Per noi è fondamentale collaborare con le altre realtà, partendo da quelle che rientrano nell’orizzonte pubblico come noi. Bisogna fare sistema non a parole, ma nei fatti. Stiamo collaborando sempre più intensamente con l’Istituzione Biblioteche,  con la Fondazione a Cineteca, con l’Arena del Sole e il Teatro Comunale; stiamo facendo rete e proporre offerte e attività condivise. Nei prossimi mesi si vedranno i segni tangibili di questa cooperazione. Per fare un esempio immediato, uno primo risultato da raggiungere, coinvolgendo diverse realtà al di là di quelle sopracitate, sarebbe quello di offrire ai cittadini e ai turisti, accanto al quadrilatero del food, che viene un po’ mal visto dai radical chic per via della presenza di taglieri di salumi e l’assenza… di chef stellati, un quadrilatero della cultura: una delle più grandi concentrazioni culturali a livello cittadino nel mondo.

Pensiamo all’area intorno a Piazza Maggiore: c’è il Museo Archeologico, nell’estate del prossimo anno ci sarà il Cinema Arlecchino ristrutturato adiacente allo spazio sotterraneo per esposizioni fotografiche della Cineteca, l’Archiginnasio, la Sala Borsa, l’ultimo piano di Palazzo D’Accursio con le Collezioni Comunali d’Arte e l’accesso alla Torre dell’Orologio (già da quest’anno) e possibilmente un bar. Stiamo parlando di un potenziale enorme che coinvolge tutte realtà pubbliche.

Ancora, al di là delle collaborazioni con queste realtà, bisogna sempre ricordarsi che la presenza museale deve uscire dai musei. Come ha detto l’Assessore Lepore, per quanto riguarda il contemporaneo la competenza di MamBO riguarda tutta la città. Se si fanno interventi di contemporaneo, per esempio, sarebbe bene non improvvisare e non pensare che qualsiasi murales è un bene in sé in quanto copre una tag o le disincentiva. Con la sola buona volontà, purtroppo, spesso si realizzano operazioni che non possiedono lo spessore culturale di cui dovrebbero invece essere dotate. In questo senso, il MAMbo deve aiutare in generale la città nell’espressione del contemporaneo. Nei nostri musei abbiamo decine di specialisti e ricercatori nei settori storico-artistici più vari, è uno spreco che la città non li utilizzi anche al difuori delle mura dei musei.

Lei da assessore alla cultura promosse patti e accordi con i centri sociali. E’ importante relazionarsi con queste realtà? Sono una risorsa per la città? Come giudica la situazione attuale da questo punto di vista? Da allora è cambiato qualcosa?

Da una parte le realtà di allora, parlo in questo caso del Link, erano realtà il cui valore culturale e artistico sarà ribadito nella mostra “VHS+” che si terrà a cura di Silvia Grandi alla Project Room di MAMbo dal 12 Ottobre al 6 gennaio. Si mostreranno le opere realizzate nel passaggio dall’analogico al digitale al Link tra il 1995 e il 2000, un’epoca feconda per queste produzioni. Il TPO e il Link avevano due caratteristiche che non ritroviamo oggi: spazi molto grandi con una pluralità di attività a costi bassi in centro o facilmente raggiungibili dal centro.

Anche grazie alla loro presenza, Piazza Verdi non presentava le difficoltà di oggi dove di sera soggiornano una quantità elevata di studenti che non hanno le alternative di venti anni fa. E per la non compenetrazione dei corpi questa massa di persone costituisce un problema. Erano spazi che avevano rapporti formalizzati con l’amministrazione comunale. Pur non essendo a norma, in quanto a destinazione temporanea, sprigionavano grandissima creatività culturale, con prezzi bassi, grande accessibilità e con la peculiarità che il fruitore, spesso, era allo stesso tempo anche creatore delle azioni performative che si tenevano. Allora vi era un incredibile equilibrio tra creatività e aspetti sociali: al Link prevaleva la creatività e il sociale faceva più da sfondo, mentre  al TPO l’esatto contrario.

Spazi di questo tipo sono importanti. Oggi non esistono spazi di questo tipo.  Il TPO è ancora operante pur in una diversa dislocazione, ma ciò che è diverso è il contesto più generale. Fare confronti rischia sempre di ingenerare equivoci, più che proporre soluzioni. La città, a dire il vero, avrebbe oggi forse più bisogno di spazi dati in gestione in maniera temporanea alle realtà emergenti con una rotazione che permetta loro di maturare senza chiudere le porte alle generazioni successiva. Il ricambio nelle strutture che fanno e gestiscono cultura è fondamentale, altrimenti si rischia l’utilizzo privato di beni pubblici limitati a spese delle nuove generazioni. Non è una situazione facile da gestire ma sono dinamiche che devono emergere e trovare modalità condivise di soluzione.

Museo del Tessuto e della Tappezzeria esterno con giardino

Lei è anche Presidente dell’ Associazione Collegio di Cina. Che rapporti ci sono tra Bologna e la Cina a livello culturale?

Noi come associazione curiamo il rapporto tra studenti cinesi, università, città e imprese. Quando la fondammo, dodici anni fa, c’erano soltanto 35 studenti cinesi iscritti a Bologna e 450 in tutta Italia, mentre  nella sola Germania erano già oltre 10.000. Fu l’allora Presidente della Repubblica Ciampi, che in una visita in Cina sollecitò le università italiane a recuperare il terreno perduto. L’Associazione Collegio di Cina è stata la risposta più efficace a questa richiesta. Oggi gli studenti cinesi sono la prima etnia estera a livello di presenza all’Università di Bologna, con ben 850 studenti. In città, tra l’altro, c’è anche l’Istituto Confucio che ha come propria missione la diffusione della lingua e cultura cinesi. Organizziamo insieme anche momenti di scambio e conoscenza reciproca tra la cittadinanza e gli studenti.

Con il nostro impulso si può dire che abbiamo dato una scossa a tutta la città a cui recentemente è stata data la qualifica di “Chinese Welcome” grazie a quanto l’aeroporto, Bologna Welcome e altre strutture di accoglienza stanno facendo per prepararsi alla presenza di turisti cinesi che non dovranno essere quei turisti che in una settimana visitano tutta l’Italia o parti d’Europa, ma quei cinesi più ricchi e intellettualmente curiosi che possono essere in grado di apprezzare una cittàcome Bologna.

C’è qualche iniziativa legata all’associazione di cui vuole parlare prima di salutarci?

L’ultima iniziativa che abbiamo presentato, promossa con il Comune e con la Fiera, è una call per un illustratore o una illustratrice cinese, che ospiteremo in residenza a Bologna per qualche settimana per realizzare un libro illustrato con lo scopo di raccontare Bologna dal suo punto di vista. Un’iniziativa molto interessante sia perché ci consente di vedere Bologna attraverso una diversa lente di lettura sia perché ci consente di promuoverla in maniera originale. Il libro sarà presentato alla edizione della Fiera del Libro per ragazzi del prossimo anno.

Noi solitamente concludiamo le nostre interviste facendo scegliere un brano musicale, con cosa ci saluta?

 

Grazie al Jazz, oltre il Jazz

Intervista a Federico Mutti, Presidente del Bologna Jazz Festival a cura di Francesco d’Errico

Federico Mutti nasce a Bologna nel 1979 e lavora nel mondo del cinema da quando ha vent’anni. Dal 2012, dopo l’inaspettata morte del padre Massimo Mutti, che nel 2002 resuscitò la kermesse da una pausa forzata iniziata nel 1975*, è diventato all’improvviso, Presidente del Bologna Jazz Festival riuscendo, nonostante le difficoltà iniziali, a gestire e portare avanti la rassegna con grande personalità e autorevolezza. Sotto la sua presidenza infatti, grazie anche alla lungimirante direzione artistica di Francesco Bettini, ha rinnovato profondamente il Festival, favorendo il dialogo tra jazz e altri generi musicali e dando spazio a esibizioni e performance caratterizzate da un linguaggio e un approccio aperto e contemporaneo.

Con lui abbiamo cercato di capire che cosa significhi organizzare un festival di musica internazionale, quali responsabilità abbiano le imprese culturali e quali sono, o quali dovrebbero essere, i rapporti tra esse e le istituzioni. Spaziando dal jazz al mondo dell’industria cinematografica, col fine di provare a delineare le mosse che Bologna deve compiere per trasformarsi davvero in una città internazionale, abbiamo parlato anche di turismo sostenibile, di città metropolitana e di quanto sia importante fare network tra le diverse realtà locali del settore cultura.

*Tra il 1975 e il 2002 ci sono state solo alcune sporadiche edizioni. 

Suo padre nel 2006 rifondò il Festival che era fermo dal 1975. Nel 2012, dopo la sua scomparsa, Lei lo ha sostituito. Che cosa significa per Le, oggi, ricoprire questo ruolo? 

Beh, è una bella domanda. Non tutti se la pongono perché danno per scontata la mia successione, la vedono come qualcosa di meccanico, come se si trattasse di un’eredità. Per rispondere bisogna partire dal presupposto che io ho sempre avuto, e ho tutt’ora, un altro lavoro al di là del festival. Lavoro nel mondo del cinema da quando ho vent’anni, un lavoro che mi ha sempre preso e appassionato molto e che fino a poco tempo fa è stata la mia attività principale; oggi sono esattamente diviso a metà tra questa attività e la gestione del festival. Chiaramente, con il BJF ho sempre avuto un rapporto di vicinanza ma non mi aveva mai coinvolto a livello professionale.

Non mi interessava entrare dentro all’organizzazione per fare il figlio di Massimo, la macchina funzionava molto bene, io non ero necessario all’interno dello staff , l’organizzazione era già ben strutturata e non mi sarei potuto rendere utile. Dico tutto questo proprio per sottolineare che non mi sarei mai aspettato di diventarne, un giorno, il presidente e che in questo non c’è stato nulla di automatico.

Ci spieghi dunque com’è andata..

E’ andata così: mio padre, ha iniziato ad avere problemi di salute e ,nell’ultimo periodo della sua vita, essendo una persona riservata, ha sentito il desiderio di proteggersi, di avere un filtro tra sé e il mondo esterno: quel filtro sono stato io. Così iniziai ad affiancarlo nei rapporti con le Istituzioni, con l’Assessore alla cultura e a interfacciarmi con tutto lo staff della nostra organizzazione, fino a quando, purtroppo, a un mese e mezzo dal festival, mio padre ci ha lasciati, morendo in tre giorni, in maniera del tutto inaspettata, almeno per me che, fino a poco prima che se ne andasse, gli portavo i contratti da firmare e gli leggevo le mail.

Per lui il festival era tutto e senza di lui, in effetti in quel momento, correva il serio rischio di morire, anche l’associazione stessa, che era composta da tre persone, per motivi legali non sarebbe più esistita dopo il suo decesso.

E a quel punto cosa è successo?

A quel punto, nel delirio dei preparativi del funerale, un giorno, a pranzo, mentre mi chiedevo come avremmo fatto a portare avanti tutto, la mia compagna di allora mi convinse che dovevo essere io a prendere in mano le redini della situazione e sostituire mio padre. Sul momento le dissi che era matta ma poi, visto che sarebbe stato più complicato disdire tutti i contratti  piuttosto che onorarli, e che tutto lo staff aveva lavorato duro, mi dissi che sarebbe stato uno spreco rinunciare, sarebbe stato soprattutto uno sfregio nei confronti della città.

Decisi di convocare tutto lo staff, rifondammo l’associazione e accettai la responsabilità di fare il Presidente. Per rispondere davvero alla sua domanda di prima le dico: da un lato mi sento davvero onorato, davanti alla perdita di mio padre che se n’è andato a 54 anni, e tutto avrei pensato tranne che morisse così giovane, il Festival è stato per me uno strumento di crescita, uno strumento che io ho sfruttato per fare fronte a una situazione drammatica, per affrontare un momento di grande difficoltà come può essere la morte di un padre.  Dall’altro è stato tutto molto pesante, per anni si è continuato a fare confronti con lui, a dire che bisognava fare le cose “come diceva Massimo”, e in quel momento ogni conferenza stampa mi sembrava un esame dell’Università da superare. Ormai però è la settima edizione che mi trovo a organizzare e da quando ho iniziato a capire che nel Festival c’era anche del mio, che con il mio lavoro e quello dei miei collaboratori lo stavo trasformando, ho iniziato a vivere le cose in maniera più leggera, e ho iniziato a vedere tutto diversamente.

Sopravvivere ai propri genitori è anche questo. Si muore e si rinasce, proprio come il Bologna Jazz Festival che pare essere immortale, viste le sue vicissitudini storiche.

Il Jazz è, fin dalla sua nascita, un genere predisposto alla sperimentazione, al superamento dei confini e degli schemi predefiniti. L’ultima edizione, quella del 2017, si è proposta come un’edizione attenta alla tradizione ma  proiettata verso nuovi linguaggi.  Per rimanere attuale il jazz deve misurarsi con l’elettronica e con l’hip hop? Che rapporto ha il BJF con il tema dell’innovazione? 

L’Hip Hop è una rielaborazione di tutto il repertorio “black” che lo ha preceduto, dal soul, al funk, al blues, al jazz stesso, con il quale, peraltro, condivide l’improvvisazione: dopo il jazz, il primo genere che ha coltivato l’improvvisazione è stato proprio l’hip hop, tramite la disciplina del freestyle. L’hip hop e il jazz, pur partendo ,forse, da presupposti distanti, hanno molto in comune ed è dunque naturale per noi cercare una connessione con esso, proiettarsi verso questo genere.

Noi cerchiamo di offrire ai ragazzi un chiave d’accesso al jazz più contemporanea, il jazz è uno dei generi più trasversali di tutti e ci concede di spaziare da un pubblico che normalmente ascolta la musica classica a quello che invece ascolterebbe di solito musica rock. Per quanto riguarda l’elettronica, invece, l’anno scorso, tra i vari artisti, abbiamo ospitato in concerto il progetto di Enrico Rava, Matthew Herbert e Giovanni Guidi, un concerto difficile, un tipo di performance alla quale il nostro pubblico “tradizionale” non è ancora del tutto abituato.  E’ importante fornire queste nuovi chiavi di lettura, sia per coinvolgere i giovani che per aprire nuovi percorsi e nuove esperienze al nostro pubblico tradizionale.

Sempre nell’ultima edizione avete proposto diverse iniziative multidisciplinari e didattiche, tra cui, per esempio un progetto dedicato all’integrazione sociale e professionale dei musicisti migranti e rifugiati. Quanto è importante per voi che il festival, al di là della proposta artistica in senso stretto, offra alla comunità attività di questo tipo? 

Da quando ho intrapreso la mia esperienza come Presidente, ho fortemente voluto che il Festival partecipasse ai bandi nazionali ed europei. All’inizio non tutta l’organizzazione ha condiviso questa idea ma, alla fine, la mia linea ha avuto la meglio. Tra i vari bandi a cui abbiamo partecipato c’è appunto quello che lei citava, il bando Refugees, un bando internazionale dedicato ai rifugiati musicisti, a chi è dovuto scappare dal proprio paese e che, magari, da musicista è dovuto diventare, per forza di cose, raccoglitore di pomodori o lavavetri. E’ un progetto che vede coinvolte anche altre realtà e altre città, Sevilla, Gent, Berlino,Roma e per il quale abbiamo fatto una ricerca per individuare dei musicisti di qualità tra i rifugiati, dei musicisti che potessero creare un progetto musicale.

Siamo partiti prima con degli “house concert”, poi con delle jam un po’ più strutturate nei locali e siamo arrivati a proporre uno “spettacolo finale” che presentermo anche quest’anno (il progetto è biennale) e che vedrà, tra l’altro, anche la partecipazione di Roy Paci. E’ un progetto nel quale crediamo molto, è un modo per dare uno spazio a chi nella vita non ne ha avuto. In conclusione, crediamo che sia importante offrire anche attività didattiche e di formazione per un festival, non ci si può fermare alla proposta musicale. Adesso siamo entrati anche nelle scuole con diversi progetti, al Liceo Musicale Lucio Dalla ma anche al Liceo Artistico per esempio.

Quello tra Bologna e il Jazz Festival è un rapporto che nasce da lontano e che dura fin dal primo dopo guerra. Il jazz che influenza ha avuto e ha sulla città di Bologna? In che modo può averla cambiata? 

Il jazz è una delle più grandi rivoluzioni musicali del ‘900 e per quanto punk rock siano stati due generi di grandissima rottura, soprattutto rispetto a quello che c’era prima, il jazz ,forse, dal punto di vista della struttura musicale, è stato il più rivoluzionario di tutti i generi o quantomeno uno dei generi più innovativi. Detto questo, proprio vista la sua continua capacità di innovarsi e di rinnovarsi, sarebbe riduttivo, visto quanto lo stesso jazz si è evoluto negli anni, pensare a un’idea di jazz fissa e cristallizzata. Bisogna quindi chiedersi quante volte il jazz, cambiando esso stesso, abbia influenzato la città e in che termini.

Inizialmente, il rapporto tra il jazz e la città si è sviluppato grazie all’Università, esattamente sessant’ anni fa, nel 1958, quando dei giovani appassionati di Jazz diedero vita al Festival. La situazione fu quella di un gruppo di amici che imbastì un piccolo festival ma che nel giro di poco si trovò ad ospitare Miles Davis, grazie a una figura storica del BJF (e non solo), cioè Alberto Alberti, che fra l’altro fu il primo a portare Davis in Europa. Si creò così via via un festival di alto livello, uno dei più importanti in tutto il panorama internazionale, non solo in europeo. Tutto si arrestò bruscamente a metà degli anni ’70. In quel momento la politica locale scelse di non valorizzare più il BJF e si lasciò, di fatto, che gli organizzatori da Bologna si spostassero in Umbria, creando, con il supporto delle istituzioni locali, forse un po’ più lungimiranti di quelle felsinee, l’ormai famoso Umbria Jazz Festival, che oggi è tra le più importanti manifestazioni musicali del mondo insieme a Newport, Montreux, Londra. Ad ogni modo, si può sicuramente dire che la culla del Jazz in Italia sia stata Bologna.

E oggi? Qual è il rapporto tra Bologna e il Jazz?

Il jazz a Bologna, oggi,  per intenderci quello del Festival che io mi sono ritrovato a gestire, è un genere che è seguito da uno “zoccolo duro” formato da persone dai 50 anni in su, da un pubblico che proviene da una classe sociale medio alta e colta. Io sono ripartito da questo target, ma con l’idea di spostarci sempre di più verso i giovani, di aprirci anche a loro. Per venire davvero alla domanda, “che cosa da il jazz alla città?”, beh è una domanda che noi ci poniamo sempre e, in realtà, dipende tutto da quello che gli organizzatori di eventi jazz offrono. Noi cerchiamo di proporre sempre una programmazione coraggiosa, non solo mainstream, ma che arricchisca il più possibile l’offerta.

Bisogna formarlo il pubblico. Se ogni tanto non lo spiazzi, non lo metti in crisi, non lo fai crescere, sei soltanto un cialtrone. Chiaro, bisogna fare anche delle valutazioni economiche, siamo i primi a farlo, ma non possono esserci solo quelle se si fa cultura.

Il BJF è un festival dal respiro internazionale. Bologna è una città internazionale? Se non lo è, può aspirare a diventarlo? 

Bologna sta, lentamente, diventando una città internazionale, e in qualche modo, sotto certi aspetti, penso che lo sia già. Penso al progetto Iperbole che fu molto all’avanguardia, e ovviamente, all’Università, la più antica del mondo Occidentale. Tuttavia, penso anche che ci sia molto da lavorare a livello di mentalità; la città per certi altri aspetti resta ancora molto provinciale. Il problema non è solo bolognese, direi che è generalmente italiano.

In che senso?

L’Italia ha iniziato a vivere il fenomeno migratorio da relativamente poco tempo, soprattutto se lo confrontiamo ad altri paesi europei come la Francia e l’Inghilterra che, per il loro passato coloniale, hanno sempre avuto un rapporto diverso con questo tema. Noi abbiamo sempre avuto un’idea poco aperta sotto il profilo dell’integrazione di culture diverse, non c’è stato storicamente un approccio realmente multiculturale da parte dell’Italia.

In questo Bologna, nel suo piccolo, è stata però più fortunata rispetto ad altre città. Infatti, grazie alle amministrazioni di Sinistra, che rispetto alla Destra ha storicamente avuto un rapporto privilegiato con la cultura, abbiamo goduto di un ambiente che ha sempre accolto in maniera positiva anche l’avanguardia e le diversità. E’ sull’approccio multiculturale che bisogna lavorare per diventare davvero una città internazionale. Tra l’altro in un momento come questo in cui Bologna nell’ultimo anno ha visto una crescita del turismo del 7%…

Ecco, scusi se la interrompo, ma il turismo? Il BJF che rapporto ha con il turismo? E lei più in generale come vede questo fenomeno per la città? 

L’amministrazione ha lavorato benissimo sul turismo, questo bisogna dirlo. Bisognerà però essere molto attenti e molto capaci nella gestione della trasformazione della città, nella “fase due” di questa crescita turistica. Io per il Festival ho tutto l’interesse che Bologna sia una meta turistica, anche perché già ad oggi abbiamo un 20% di pubblico che proviene da fuori. Ma, allo stesso tempo, non voglio una città completamente assoggettata al turismo, non voglio che il turismo diventi una forma di terrorismo e non voglio che disintegri la città con la “gentrificazione”. Penso a Barrio Alto, il Pratello di Lisbona per intenderci, un quartiere bohemien, che ,a colpi di Airbnb, si sta svuotando, ed è diventato un quartiere di condominii pieni di bed&breakfast, con i cittadini locali che si sono spostati in periferia.

E’ questo che bisogna evitare, non si deve trasformare un posto autentico in una vetrina vuota. Un turista per quanti anni torna in un posto che è morto? Il turismo offre tanto alla città, la arricchisce molto ma ,allo stesso tempo, bisogna essere cauti e saperlo gestire.

Quale è il vostro rapporto con le altre realtà locali del vostro settore? Bologna è una città in cui si riesce a fare network in maniera proficua e produttiva?  

Devo dire che noi siamo stati particolarmente bravi nella collaborare con altre realtà locali. A livello teorico, viste le piccole dimensioni della città, sarebbe facile fare network, tuttavia, nella pratica, anche a causa della mentalità provinciale di cui parlavamo prima, spesso le realtà pensano a coltivare il proprio piccolo orto e a condividere poco le loro esperienze e le loro conoscenze. C’è, purtroppo, una diffusa tendenza a dividersi in parrocchie che, talvolta, paralizza la città. Noi non abbiamo mai coltivato questa mentalità, ci siamo sempre disinteressati di questo genere di dinamiche e ci siamo presentati a parlare con tutti, cercando di mostrare a chiunque le centomila possibili chiavi di accesso e di lettura del jazz.

Devo dire che questo è piaciuto e, coerentemente con la nostra idea, in occasione del nostro sessentannale, quest’anno, abbiamo deciso di non festeggiare i sessantanni del Bologna Jazz Festival ma di tutto il Jazz a Bologna: ci siamo da poco incontrati con tutte le realtà che si occupano di questo genere a Bologna. Qualche anno fa si sarebbe fatto a gara per chi faceva l’evento per primo, a chi avrebbe avuto uno sponsor e chi no. Invece no, c’è posto per tutti, fare network è questo, rendersi conto che a volte è bene rinunciare a un pezzo del proprio spazio ma per condividerlo e farlo crescere molto di più e per avere indietro qualcosa di molto più grande.

Vi siete allargati anche a Ferrara e Modena. Come giudicate queste due esperienze fuori dalle mura? 

Il nostro direttore artistico, Francesco Bettini, è di Ferrara. Lui gestisce uno dei migliori jazz club d’Europa, Il Torrione, un vero gioiello, che si trova proprio lì nella città estense e che propone una programmazione veramente coraggiosa e di alto livello. Ferrara da questo punto di vista risponde molto bene, il Torrione è per noi un punto di riferimento.

Tra l’altro, Bologna non è una città Metropolitana? Se si vuole dare un senso alle parole è giusto ragionare in questi termini, è giusto allargarsi verso i comuni vicini. In 40 minuti di treno si arriva a Firenze e non ci allarghiamo a Ferrara e Modena? Anche a Modena abbiamo cercato di replicare quello che abbiamo creato a Ferrara, anche lì in un ottimo jazz club, ci crediamo davvero molto in questo progetto. Anche se non è facile far muovere il pubblico da una città all’altra ma la connessione al momento sta funzionando molto bene.

Allargando la prospettiva al di là di Bologna e parlando più in generale, quanto è importante la presenza dell’attività privata nel settore cultura? E quali devono essere i rapporti tra istituzione e privati? 

Prima di tutto penso che serva il sostegno delle istituzioni. Serve per garantire la sincerità del prodotto,  per rendere possibili anche progetti d’avanguardia senza obbligarli a fare grandi numeri. L’avanguardia talvolta può essere vista come autoreferenziale  e fine a sé stessa, come un binario morto che non va da nessuna parte, altre volte volte ,però, è il motivo per cui nasce un fenomeno di massa anni dopo. L’istituzione non può esimersi dalla partecipazione a questo genere di processi culturali. E questo genere di processi non può essere garantito dalle sole imprese private che, giustamente e legittimamente, hanno come fine primo quello del profitto.

Detto questo le imprese private che decidono di investire in attività culturali dovrebbero avere accesso a degli importanti sgravi fiscali, o ancora, in un’ipotesi più estrema, una parte delle loro tasse dovrebbe essere devoluta ad esse automaticamente. In questo modo vedremmo molte attività culturali crescere, con conseguenti aumenti di spesa, assunzione di nuovi collaboratori o personale ecc. ecc. Si attiverebbe un ciclo virtuoso per tutti, anche per lo Stato stesso che vedrebbe poi rientrare ciò che ha investito da altre parti.  Il Ministro Franceschini in questo senso per il jazz ha fatto molto, è stato creato un fondo specifico per il Jazz ma c’è ancora molto da fare.

foto by Malià Erotico

foto by Malià Erotico

E il rapporto tra marketing è cultura?

C’è un grande dibattito su questo tema, è molto difficile fare marketing e allo stesso tempo offrire un prodotto culturale onesto e sincero. Per questo penso, come ho detto prima, che, al di là degli investimenti privati, che comunque restano fondamentali, lo Stato debba e possa fare di più. Nessuno ti sponsorizza più per mettere il bollino sui volantini e sui manifesti, c’è sempre qualcosa da dare in cambio.  E’ un equilibrio molto complesso, l’Istituzione deve rimanere centrale per questo.

Per chiudere torniamo alla nostra città. Lei lavora da quando era giovanissimo nell’ambiente del cinema. Bologna, in questo campo, ha qualcosa da dire? 

Il cinema è a Roma e a Milano. Punto. Se vuoi fare il professionista nel mondo del cinema devi spostarti lì. O fai delle scelte di sacrificio pazzesche, come me, che faccio avanti e indietro continuamente, cosa complessa soprattutto avendo famiglia o figli, oppure vai là. In questo senso, invece, ha lavorato molto bene il Piemonte, una meta che non era tra le prime scelte per girare film e che invece è diventato un polo cinematografico grazie a interventi e investimenti della Regione. Allo stesso modo Regione Puglia ha attratto numerosi film mediante un fondo ad hoc e, fortunatamente, da qualche anno sono arrivati anche in Emilia-Romagna leggi e incentivi per il cinema dalla Regione. E’ da tanti anni che noi del settore chiediamo abbiamo chiesto alle istituzioni di investire. Ogni euro che investi in una produzione sono quattro euro che guadagni, per realizzare un film servono tante maestranze, persone che per girare stanno in città per dei giorni e lì devono mangiare, dormire e spendere, automaticamente creano indotto. Detto questo, a Bologna, ci sono ottimi corsi di formazione ma se le persone, dopo essersi formate, devono scappare e andare a Roma e Milano col coltello tra i denti, qui non si svilupperà mai niente di solido. Io trovo che Bologna cinematograficamente offra tanto sia come estetica della città che come realtà piena di sfaccettature e in cui si trovano molte particolarità. E comunque pensi che non c’è un vero teatro di posa a Bologna, o meglio, se si ha necessità di realizzare una scena al chiuso c’è n’è uno che non è insonorizzato ed è a metà tra la ferrovia e le rotte dell’aereporto…

Non chiediamo Cinecittà, ma anche a Torino c’è un polo cinematografico importante, basterebbe una struttura come quella. In Emilia-Romagna avrebbero tutti voglia di venire a girare ma non ci sono le strutture. C’è molto da lavorare su questo.

Noi usiamo salutare i nostri ospiti chiedendogli di proporci un brano musicale, una canzone o una traccia da loro proposta. Lei come ci saluta?

 

 

 

 

 

CHEAP Festival: street art ≠ riqualificazione.

Intervista a Sara Manfredi, co-founder e creative di CHEAPcura di Francesco d’Errico

Nato nel 2013, CHEAP è un progetto indipendente che promuove la street art come strumento di rigenerazione e indagine del territorio urbano. Dopo 5 anni, con un comunicato che ha fatto notizia, le organizzatrici hanno scelto di sospendere la realizzazione dell’omonimo festival, Cheap Poster Art Festival, esprimendo il loro totale dissenso verso la corrente visione  della street art come strumento di riqualificazione e di lotta al degrado. Un’intervista in cui abbiamo parlato di utilizzo di luoghi abbandonati e in disuso, delle scelte che la città sta facendo rispetto agli investimenti culturali, di gestione dello spazio pubblico, del rapporto tra istituzioni e realtà indipendenti e, infine, della funzione che la street art dovrebbe avere e che invece, secondo loro, a Bologna, oggi, non ha.

“Le festival est mort, vive le festival”. Dopo cinque anni avete deciso di non riorganizzare il vostro festival. A Repubblica avete dichiarato “ormai sui muri dipingono tutti, spegniamo il nostro festival”. La street art è diventata troppo pop?

Questa è una semplificazione, il problema è più complesso. Noi abbiamo preso coscienza del mutamento del contesto in cui oggi operiamo, il quale è molto cambiato da quando abbiamo cominciato. In questo momento c’è sicuramente una grande saturazione a livello di proposta di steet art, questo mi pare evidente. E poi, soprattutto, c’è anche la cattiva abitudine di affiancare gli interventi di public art e di street art all’idea di decoro.

Ecco, a proposito dell’idea di decoro, voi nel vostro comunicato di sospensione dell’attività del festival avete parlato di “imbruttimento del decoro”. Che cosa significa?

Quando parliamo di “imbruttimento del decoro” ci riferiamo alla diffusa ansia per le tag, al tirare in ballo il decoro come categoria da associare, paradossalmente, alla street art stessa. Abbiamo l’impressione che qualcuno voglia utilizzare la stree art come strumento per la ricerca di decoro. C’è in atto una normalizzazione della street art che è impropria, vengono richiamate categorie fuori luogo come questa. Tutto ciò, tra l’altro, nella continua contraddizione per la quale se uno street artist fa un intervento con un permesso in tasca il suo gesto viene considerato arte contemporanea, mentre se un altro street artist realizza un intervento analogo, simile ma lo fa senza permesso, la sua operazione viene considerata un atto vandalico. Se è la presenza o meno di un permesso a determinare la natura di un intervento artistico e a qualificarlo come “degrado” o come “decoro”, c’è qualcosa che non funziona. E’ questo tipo di narrazione che non funziona.

Sempre nello stesso comunicato criticate l’associazione tra il concetto di riqualificazione e gli interventi di street art. Voi stessi, però, vi presentate come una “realtà che promuove la street art per rigenerare e indagare il territorio urbano”. Dunque vi chiedo: cosa non vi piace del concetto di riqualificazione? E soprattutto: che differenza c’è tra rigenerare e riqualificare?

Il termine rigenerare è stato scelto da noi per il progetto Cheap On Board, un progetto che ha l’obiettivo di utilizzare il circuito di bacheche del centro storico, di proprietà del Comune, che erano abbandonate e inutilizzate da dei decenni prima del nostro intervento. Questo circuito è inserito perfettamente e pur essendo parte dello spazio pubblico era abbandonato sé stesso.

Il Comune, quando abbiamo realizzato Cheap On Board per la prima volta, era in difficoltà, non sapeva che utilizzo fare di questi spazi: non poteva togliere le bacheche ma non riusciva neppure a sviluppare progetto che le vedesse protagoniste. Noi le abbiamo notate e abbiamo trovato accordo col settore cultura per sviluppare progetti di varia natura; dall’arte visiva, alla street art, passando per campagne di comunicazione non convenzionale, fino alla promozione di campagne sociali. Intervenendo su questi spazi, in questo senso sì, li abbiamo rigenerati. C’era un supporto, uno spazio, un circuito che poteva veicolare diversi contenuti che noi abbiamo preso in mano e che era abbandonato. Ma questo non ha nulla a che vedere con l’idea attuale di riqualificazione delle periferie che viene tirata in ballo per qualsiasi intervento di street art venga in esse realizzato. Pensiamo che ci sia molta confusione e che in un contesto confuso si rischi di perdere lucidità. Noi non vogliamo perderla. Preferiamo dunque fare un passo indietro e ricalibrare il tiro.

Parliamo del rapporto tra street art e istituzione. Anche voi, come detto pocanzi, avete avuto rapporti con il Comune e con l’assessorato ala cultura della città. C’è qualcosa che non funziona più in questo senso? Visto il vostro comunicato ci si potrebbe chiedere che tipo di rapporto abbiate oggi con le istituzioni…

Noi abbiamo sicuramente trovato degli accordi con le istituzioni, le quali si sono dimostrate capaci di attenzione e che hanno saputo rispettare lo spirito profondamente indipendente di Cheap. Laddove la nostra indipendenza non è stata messa ne a rischio ne in discussione, per noi è stato facile mantenere rapporti con l’istituzione. Ciò che è cambiato oggi, nel contesto attuale, non è soltanto l’istituzione, la situazione attuale, infatti, è determinata da più fattori e da più agenti, non si può dare la responsabilità di tutto a uno solo di questi. E’ il contesto generale che noi leggiamo in maniera critica, leggiamo in maniera critica il ruolo che ci si aspetta da noi. Così si rischia di andare in una direzione che non ci appartiene o, peggio, si rischia di essere assimilati da un processo che noi rifiutiamo.

Descrivendovi sui vostri canali ufficiali parlate di voi come un gruppo che  agisce riappropriazioni collettive di spazi nei quali liberare energie creative”. A Bologna c’è un problema di spazi di cui riappropriarsi?

Che ci sia un problema di spazi è evidente. La presenza, dentro le mura, di un ristorante ogni 37 abitanti circa, è indicativa in questo senso. Io ho grande rispetto per chi fa ristorazione ma mi piacerebbe poter constatare la presenza di uno spazio culturale ogni 37 abitanti piuttosto che di un ristorante. Da ultimo, inoltre, abbiamo assistito allo sgombero di alcuni spazi e realtà sociali, anche storiche. Penso, per esempio, ad Atlantide che non ha più una collocazione fisica in città. In casi come questo c’è la mancanza di riconoscimento politico di un’esperienza che molti invece ritenevano importanti e rilevanti.

Al di là di spazi e realtà sociali che non hanno più una propria collocazione, ritenete che vi sia anche un problema di spazi abbandonati e inutilizzati?

Sì assolutamente, su questo tema non c’è visione, non c’è una strategia. Io al momento vivo in Germania e qua,sui luoghi da riconvertire in spazi culturali e sociali, anche temporanei, c’è un altro tipo di attenzione e anche di investimento. Bologna è piena di spazi vuoti che potrebbero essere utilizzati se solo ci fosse la volontà di renderlo possibile. Potrebbero diventare gallerie, auditorium, spazi multifunzionali e tanto altro.

Votando la città unicamente al cibo si rischia di avere poco spazio, poca energia e pochi fondi per il resto. Bologna sa e può esprimere molte altre professionalità al di là di quella del campo gastronomico. E’ una città che negli ultimi dieci anni ha spinto molto  l’acceleratore sull’arte contemporanea, è città patrimonio dell’UNESCO per la musica, abbiamo l’Università più antica d’Europa. E’ una città che ha tanto da dare, anche se le sue potenzialità non sono valorizzate nel modo giusto.

Cheap, sempre per citarvi, “parte dal basso”. La partecipazione dal basso pare essere una delle vostre caratteristiche principali. Sembra dimostrarlo anche la vostra “Call for Artist” aperta, in cui chiunque può inviarvi materiale da selezionare per partecipare al festival. Cosa significa fare cultura dal basso oggi? A Bologna, oggi, si fa cultura dal basso?

Io sono sempre un po’ in difficoltà quando si parla di “cultura dal basso” perché identificare un basso significa necessariamente dover identificare anche un alto. E questo tipo di geografia si dimostra spesso fallace. Preferiamo dire che CHEAP è un progetto attraversabile, un progetto aperto, per questo abbiamo scelto la forma dell’associazione. La Call for Artist abbiamo scelto di farla sin dal 2013 e continueremo a farla, nonostante la sospensione del festival c’è n’è una attiva anche adesso per il 2018 ( la call si chiama FRAMMENTO / UNITA’ – parte e tutto, goccia e marea, bit.ly/CALLforARTIST_CHEAP2018).

La Call si può dire che rappresenti il “core” di cheap, è uno sguardo sul graphic design, sull’illustrazione, sulla fotografia, sull’arte visiva, al di là della street art, uno sguardo che diventa narrazione collettiva  e che si sviluppa su un tema attraversando lo spazio pubblico, facendolo con il supporto più effimero a cui siamo riuscite a pensare: la carta.

A proposito di carta. Avete scelto la carta perché effimera, non permanente. Nel mondo digitalizzato, dove tutto è più volatile, che valore assume questo tipo di supporto? Cosa vi affascina di essa?

Chiariamoci, non abbiamo preclusioni rispetto alla digital art ma noi realizziamo esperienze partecipate e condivise, esperienze in cui è fondamentale essere lì, in quel momento, in quella strada, nello spazio pubblico. La fisicità è imprescindibile e,per quanto i nostri interventi siano temporanei e destinati a non lasciare traccia per sempre, quello che proponiamo  ha una forte natura materiale e fisica. Nel 2013, quando è nato Cheap, eravamo incuriosite dalla carta e dalla poster art anche perché, in quegli anni, non se ne vedeva tanta in giro, forse era più conosciuta a Roma o in altri contesti. Qui non c’era la saturazione attuale, non molti artisti si misuravano con questo mezzo e così ci siamo lanciate.

Continuiamo a parlare di voi. Il team di Cheap è composto da sei donne e un tema di vostro interesse sembra essere quello della disparità di genere. E’ così?

Più che la disparità di genere, direi proprio che una delle energie che attraversa CHEAP è il femminismo. L’8 Marzo di quest’anno, in occasione dello sciopero femminista, abbiamo fatto un intervento di attacchinaggio in Viale Masini, un intervento che si può definire assolutamente femminista, realizzato in collaborazione con l’artista MP5 e con la complicità di Non una Di Meno Bologna. Inoltre, in altre occasioni, abbiamo collaborato con le Guerrilla Girls, una formazione artistica e di attiviste femministe. Abbiamo anche fatto una campagna con il  MIT, Movimento Identità Trans, per supportare una delle loro battaglie principali, quella per l’ottenimento del cambio di sesso sul proprio documento di identità senza l’obbligo di ricorrere all’operazione chirurgica. Ancora, subito dopo la strage di Orlando, abbiamo lanciato la campagna “Shoot me”  (“Sparami”) con l’artista Gianluca Vassallo, in cui sui manifesti vi erano una serie di fotografie di coppie omosessuali che si baciavan. Direi che i temi del femminismo, di un femminismo     che è transfemminista, hanno sempre attraversato CHEAP in tutti questi anni.

Ci spieghi meglio: quale è il vostro modo di intendere e interpretare il femminismo?

Sì, partiamo però da un presupposto: noi non siamo un collettivo politico, non abbiamo scritto una manifesto della nostra idea di femminismo. Tuttavia, tenendo conto della nostra esperienza come CHEAP e rispettando le nostre diverse sensibilità personali, posso affermare che siamo chiaramente vicine ad un’idea di femminismo intersezionale.

Per concludere: voi vi occupate di arte e di cultura. Cosa pensate dell’ondata di censura politically correct che in Occidente, più in particolare nei paesi anglosassoni, ha invaso anche il vostro ambito?

Qui non posso che rispondere secondo la mia personale sensibilità, a questa domanda non posso rispondere per Cheap.

Certo, ci mancherebbe, non c’è problema, ci racconti.

Bene. Partiamo dal presupposto che la sola parola “censura” mi fa venire l’orticaria. Tuttavia ritengo fondamentale questa analisi: al di là del veicolo o dello strumento usato, dall’arte, a dei volantini, a un discorso tra amici, la libertà di espressione, a mio avviso, deve incontrare un limite quando diventa “discorso d’odio”.

Per quanto riguarda i paesi anglosassoni, per esempio, in cui c’è il concetto di “hate speech”, penso ci sia maggior cognizione di causa rispetto a quello che rimane dentro ai limiti  della libertà d’espressione e quello che li oltrepassa divenendo mero discorso d’odio. In questo senso noi abbiamo una legislazione debole, non c’è una legge speciale e specifica che riconosce “l’ hate speech” come reato. Per esempio, prendiamo il caso della Presidente della Camera emerita, Laura Boldrini, che è stata insultata in ogni modo e che è stata raffigurata con un pupazzo bruciato in piazza da un partito che  oggi si appresta a formare il nuovo governo (Lega Nord). Ecco, questo livello, questo scadimento, altrove non viene raggiunto perché ci sono delle leggi che vietano tali comportamenti. Bisogna stare attenti a parlare di censura in senso assoluto, bisogna contestualizzare per poter giudicare cosa è censura e cosa no.

Allora le faccio qualche esempio, così mi dice cosa ne pensa:

  • I romanzi di “Mark Twain” eliminati dai programmi di studio di diverse università americane perché ritenuti razzisti e schiavisti.
  • Il “Grande Gatsby” considerato un romanzo sessista e per questo messo all’indice.
  • Il quadro “Ila e le Ninfe” di John William Waterhouse (1896), anch’esso considerato sessista e per questo messo in cantina dalla Manchester Art Gallery, proprio come fece Stalin con molti dei quadri che abbiamo potuto vedere alla mostra “Revolutija” qua a Bologna, al MamBO.

Potrei andare avanti…

Le rispondo con una provocazione: tutti e tre gli autori sono uomini, spero che in questo modo venga dato spazio a tre donne.

Ultima domanda davvero. Ha citato Laura Boldrini, non mi interessa approfondire il personaggio, non è questa la sede. L’ex presidente della camera però ha parlato di abbattere l’Obelisco Mussolini a Roma, al Foro Italico. Che cosa pensa a riguardo?

Per rispondere mi rifaccio alla mia esperienza in Germania. Ora vivo qui, in un paese che, più del nostro, ha pagato per i propri errori. Qui sono state eliminate tutte le effigi naziste. La denazistificazione del paese non ha creato neppure dibattito. Il cambiamento è passato anche da questo.

Noi usiamo salutare i nostri ospiti chiedendogli di proporci un brano musicale, una canzone o una traccia da loro proposta. Lei come ci saluta?

Con un pezzo tratto dalla Miseducation of Lauryn Hill,  Everything is everything.

Cos’hanno in comune Newton e Caravaggio?

Intervista al Presidente della fondazione Golinelli a cura di Francesco d’Errico

Fondata nel 1988 dall’imprenditore e filantropo Marino Golinelli, l’omonima Fondazione si è occupata fin dal suo primo giorno di formazione culturale per i giovani, spaziando, senza mai porsi limiti, dall’arte alla scienza. Tante le iniziative messe in campo nel corso degli anni, dalla “Scienza in Piazza”, che dal 2005 al 2014 ha trasformato la città in un laboratorio a cielo aperto, al “Giardino delle Imprese”, nato per valorizzare e promuovere la cultura imprenditoriale tra i giovani, fino alle più recenti costruzioni dell’ “Opificio Golinelli” e del “Centro di Arti e Scienze”, quest’ultimo inaugurato nell’Ottobre del 2017.

Dall’1 Aprile del 2016 è diventato Presidente della Fondazione Andrea Zanotti, Professore Ordinario di Diritto Canonico dell’Università di Bologna, che ha ricevuto il testimone dal fondatore e con cui abbiamo parlato della Fondazione, della situazione del settore cultura a Bologna, di come la città abbia nel suo dna un gene europeo non del tutto valorizzato e di molto altro.

Professore, lei non è originario di Bologna, si è avvicinato alla città grazie all’Università. Ci racconti come è venuto a contatto con la fondazione Golinelli.

Il mio rapporto con la Fondazione Golinelli esiste fin dalle sue origini. Neonata, nel 1988, la Fondazione cercava un Segretario e Marino Golinelli, per questa ricerca, si affidò all’allora rettore dell’Università di Bologna Fabio Roversi Monaco, il quale mi indicò all’imprenditore. Dunque, ho seguito la Fondazione fin dalla sua nascita, prima in qualità di Segretario, poi di Consigliere del Consiglio di Amministrazione, di Vice-Presidente fino a diventarne, da ultimo, Presidente.

 Quali sono gli obiettivi  della Fondazione? E quale il vostro modus operandi, il vostro approccio rispetto ai temi che affrontate nelle vostre attività?

Partiamo da lontano. La nostra società deriva da una concezione otto-novecentesca, da un’idea di società segmentata, polarizzata, caratterizzata da una forte specializzazione sociale, che prevede un luogo specifico per ogni cosa: il luogo dove si studia, il luogo dove si fa ricerca, il luogo dove si fa formazione, il luogo in cui si produce, e così via. Ora, dal punto di vista dell’innovazione, tutto questo ha garantito una certa funzionalità soltanto fino a quando l’accelerazione della storia è stata controllabile. Oggi, però,  non lo è più.

Derivando da quel tipo di società, sulla via dell’innovazione, il tempo che si impiega ancora oggi, per studiare, ricercare, progettare, brevettare un prototipo e andare finalmente in produzione,  è un tempo enorme, troppo lungo, fuori dalle dinamiche odierne. Il percorso dell’innovazione va accorciato: bisogna creare luoghi di contaminazione dove si pensa e si produce, fin dall’origine, insieme. La fondazione va in questa direzione.

Oggi non c’è più tempo di insegnare la teoria astratta e poi l’applicazione, bisogna farlo in un’unica unità di tempo e orientare, abbattendo le divisioni da cui proveniamo, il momento creativo già alla produzione.

Un luogo come questo non c’è in Italia, probabilmente neppure in Europa:  quello di creare un luogo in cui abbattere le barriere appena descritte è un tentativo che noi vogliamo fare e che con la creazione dell’Opificio, stiamo già tentando di mettere in atto. Per esempio, l’idea di unire in un’unica sede una scuola di dottorato di big data, un centro arte e scienza, e anche un incubatore per giovani imprese, significa esattamente cercare di unire tra loro le diverse componenti di un processo che deve essere unico.

Un modello del genere non è interessante soltanto per Bologna: ma per tutto il territorio nazionale. Quando noi italiani riusciamo a unire funzionalità, l’intelligenza, bellezza – e dunque arte e scienza – facciamo cose straordinarie, cose che nessun altro al modo sa fare. In questo territorio, qui vicino a noi, a Modena,  ne abbiamo un esempio importante:  la Ferrari. La Ferrari non ha problemi di mercato perché fa cose che funzionano, veloci e belle. Quando noi italiani riusciamo a sintetizzare in un unico prodotto queste diverse caratteristiche, non dobbiamo temere ne la concorrenza del Giappone, ne della Cina o degli Stati Uniti.

Fondazione Golinelli si occupa da sempre di Scienza e di Arte, mondi che, a prima vista, sembrano essere molto distanti. Come coniugate fra loro queste due materie apparentemente lontane?

Il rapporto tra Scienza e Arte è un rapporto molto controverso che è venuto modificandosi nel tempo. Penso che all’origine ci fosse un rapporto di stretta colleganza tra le due, dato dal fatto che il meccanismo che porta al gesto artistico e quello che porta alla scoperta scientifica sono dello stesso segno. Operano entrambi nell’ordine della discontinuità, non c’è differenza, a livello di operazione mentale, tra l’idea che ha avuto Caravaggio per rappresentare la luce in un certo modo, l’intuizione di Lorenzetti per rendere la prospettiva nelle sue opere o quella newtoniana della mela che cascandogli in testa lo porta a interessarsi e e poi a scoprire la legge di gravità.

I processi mentali e i gesti dell’arte e della scienza sono simili sia dal punto di vista del loro farsi che del loro collocarsi. Questo nesso di colleganza si è spezzato quando fatto la scienza ha intrapreso sentieri di specializzazione, allontanandosi da questa matrice. Oggi, a dir la verità, bisognerebbe addirittura chiedersi se la scienza esista ancora o se esista solo la tecnica. L’arte è rimasta, tutto sommato, negletta e ai margini di questo ragionamento.

C’è una frase di Nieztsche sul rapporto tra Scienza e Arte che trovo molto convincente;  ne “ La Gaia Scienza” il filosofo afferma che non è affatto vero che la scienza è progredita per via empirica, “labolatoriale”, essa piuttosto è progredita perché ha saputo immaginare dei mondi nei quali poi inscrivere utilmente risultati delle ricerche. E aggiunge ancora, che non è la scienza il luogo in cui l’uomo è processato eminentemente per metafore: questo luogo è l’arte. Da ciò deduce, con folgorante conseguenzialità, che l’arte è il luogo scientifico per eccellenza. Io sono perfettamente d’accordo.

Oggi viviamo un’epoca di cambiamenti repentini, in cui anche l’ultima novità rischia di divenire obsoleta dopo pochi secondi. Riprendendo il titolo di una mostra che avete ospitato nel vostro Centro Arti e Scienze, siamo  davvero davanti a un futuro “Imprevedibile” al quale dobbiamo prepararci senza sapere come sarà. Lo sviluppo e la formazione culturale, soprattutto rivolti verso i più giovani, possono davvero darci gli strumenti idonei ad affrontare questo futuro?

Ci sono due modi per provare a decodificare il volto del futuro e noi, come Fondazione Golinelli, li abbiamo scelti entrambi. Il primo è legato all’evoluzione della statistica e alla scienza computazionale. Ormai, infatti, è convincimento comune che il tema dei big-data sia una chiave di lettura del futuro. Anche dati statistici, che presi singolarmente appaiono poco interessanti, infatti, quando vengono analizzati in grande quantità, diventano piattaforme di partenza indispensabili per chi determina le scelte economiche e produttive.

Il secondo, che non rispecchia l’aspetto artistotelico computazionale ma semmai l’aspetto platonico intuitivo e più profetico, consiste nel comprendere, non tramite un sistema deduttivo ma un sistema induttivo, le strade che prenderà il futuro. Qui entra in gioco il rapporto tra arte e scienza che noi esploriamo. Il futuro oggi è certamente imprevedibile, le velocità che si producono sono tali da non essere colte. Tuttavia, con entrambi gli approcci appena descritti, possiamo almeno provare, da un lato a immaginare il futuro e dall’altro ad approntare degli strumenti per cui l’imprevedibilità non ci trovi del tutto impreparati.

Quanto e come incide lo sviluppo della tecnologia e della tecnica sulla produzione culturale? Fondazione Golinelli, in ogni sua attività, pare affidare ad essa un ruolo di grande rilevanza alla tecnologia, dal progetto del “Giardino delle Imprese” pensato per giovani imprenditori o al progetto “Educare ad Educare”, rivolti a insegnati e docenti…

Bisogna prendere atto che forse i termini del problema oggi sono rovesciati. La tecnica non è più uno strumento che l’uomo piega ad un fine. E’ stato così fino alla conquista della luna, un tempo nel quale dall’ippogrifo di Ariosto fino alla luna di Leopardi, l’uomo sognava cosa c’era lassù e ha creato degli strumenti in grado di soddisfare questa curiosità, una curiosità che si poneva come un fine. Da lì in avanti la tecnica ha teso a porsi non come uno strumento ma essa stessa come il fine. Questo produce e fa sorgere una serie di problemi non banali perché si genera anomia, mancanza di significato.  La tecnica per sua natura non è narrativa, non spiega a che cosa serve una certa funzione, ha un linguaggio kick off, che ti dice soltanto che cosa si può o non si può fare, non ti dice a che cosa è finalizzata. Il tema sui cui interrogarsi è questo: come può l’uomo adattarsi a vivere senza un significato? Per provare a rispondere non ci si può dimenticare che l’uomo prima di tutto è un animale simbolico ed ha una struttura simbolica.

Quando lei è arrivato Bologna, era al centro della produzione culturale, dalla politica, alla musica, passando per il fumetto e l’illustrazione. Oggi invece? Bologna è ancora una città creativa?

Innanzitutto bisogna prendere in analisi la Bologna delle origini. Bologna è fondamentalmente una città conservatrice. E’ la città della legazia pontificia e questo non dobbiamo dimenticarlo. Emblematica, in quella fine anni Settanta, l’ultima campagna elettorale del sindaco Zangheri che in Piazza Maggiore disse: “Bisogna votare perché Bologna rimanga com’è”; un affermazione che è un manifesto di conservatorismo puro. E’ un distillato di conservatorismo. Tuttavia, Bologna ha, nel suo patrimonio storico, un grande gene, straordinario, che è l’Università. L’Università è il vero enzima metropolitano, enzima di cambiamento che questa città ha sempre posseduto e possiede tutt’ora. Il rapporto tra studenti e popolazione è virtuosamente, da sempre, di 1 a 4. Sin dal suo nascere, l’Università garantisce una piattaforma internazionale alla città. Bologna si nutre di questo e conosce le sue stagioni migliori quando questa linfa viene liberata, checchè ne pensino i bolognesi.

Questo è uno di quei periodi?

No, perché a Bologna da questo punto vista, pensando anche solo al ’76-’77, in cui l’epicentro era, nel bene e nel male, nel movimento studentesco, c’era comunque un fermento diverso. In quel movimento c’erano comunque diversi aspetti interessanti, ma anche gli anni successivi hanno contribuito a riportare Bologna al centro della vita sociale, intellettuale, politica. La celebrazione del IX Centenario dell’Università nel 1988, è stato un momento di propulsione straordinario. In quel periodo ho visto la città diventare punto di riferimento europeo, forse mondiale, per il dibattito sull’alta formazione. Quella spinta contribuì per esempio a portare un bolognese, Prodi, al governo: e in quel governo diversi ministri erano professori del nostro ateneo. Negli anni successivi si è assistito ad un declino: l’asse portante si è spostato tra Milano e Roma. Bologna, per quanto rilevante, oggi, non è più, l’epicentro del dibattito culturale. Per tornare ad esserlo deve liberare nuovamente le forze che girano intorno al flusso dell’ambiente universitario.

Proprio tenendo conto della presenza dell’Università, Bologna, al di là dei suoi aspetti più provinciali, può aspirare a diventare davvero una “città europea”? Da ultimo ciò è fonte di un intenso dibattito…

Bologna ha nel suo dna una vocazione europea. Se si pensa al XII e XIII secolo, le grandi capitali europee erano due: Parigi per lo studio teologico e  Bologna che era la patria del diritto. I due fari della cultura europea erano Bologna e Parigi. In questo passato è inscritta la caratura europea della città, un’anima che risale come un fiume carsico in superficie a seconda delle epoche storiche. La vocazione europea è inscritta nella sua storia.

Vista da fuori, tuttavia, da un non bolognese di nascita, a Bologna manca un pizzico di umiltà. Bologna tende a compiacersi molto di sé,  della piacevolezza della sua vita e di ciò che si svolge dentro le mura. Da questo punto di vista dovrebbe avere più fame.  Certo, ci sono aree strategiche che sono cresciute negli anni, dall’aereoporto alla fiera, a un sistema urbano che si  è evoluto in metropoli urbana e a cui non mancherebbe nulla per farne una capitale europea.  Però servirebbero meno presunzione e più convinzione.

E poi io un’idea su questo tema l’avrei, posso suggerirla?

Certo, prego.

Bologna, in Europa in disfacimento, ha davanti a sé una possibilità. Guardando bene l’Europa, vediamo un tessuto fatta di città medio-piccole, ognuna con un proprio principio di individuazione molto forte. Il contesto europeo è formato da questo insieme straordinario di diversità cittadine. In questo momento abbiamo un’Europa che non ha una dimensione politica e questa dimensione non può che essere costituita da un movimento che debba vedere le città come protagoniste, un movimento che potrebbe portare all’elaborazione di una Carta Costituzionale Europea. Gli unici legittimati a scrivere una carta del genere oggi probabilmente sono proprio i sindaci, perché i più vicini alla gente, in quanto ultimo anello di articolazione della società civile.

Se Bologna, che per prima nella storia, nel 1200, con il Liber Paradisus, ha abolito la schiavitù e ospita la più antica facoltà di diritto d’Europa, si proponesse come promotrice di questo movimento, con l’obiettivo porlo all’attenzione di questo continente così vecchio e malandato, penso che potrebbe aprirsi un’importante percorso per riportare Bologna– partendo dalle città gemellate e più vicine nell’amicizia –  a quel primato europeo che una volta aveva e che adesso non ha più.

In qualità di Professore, lei vive la zona Universitaria quotidianamente. Si è mai interrogato su possibili soluzioni per il tanto discusso disagio della zona Universitaria? Che idea si è fatto su questo argomento?

Non servono scienziati per individuare e decodificare il disagio della zona universitaria, segnatamente  quello di Piazza Verdi e di Via Petroni. Penso che sia passato un patto sociale scellerato, per il quale ogni comunità tende a scaricare i propri punti di criticità su un luogo, battezzandolo come nave dei folli, dove è possibile tutto e il contrario di tutto. In questo senso, non si è fatto nulla di serio negli ultimi anni per cercare di rendere l’asse tra Piazza Verdi e Via Petroni un luogo di città aperto e vivibile. Si è deciso di considerarla una zona franca, dove frange studentesche e frange di sottoproletariato possono avere un luogo di libera frequentazione non controllato e non inserito nel contesto urbano. Credo che questo degrado sia intollerabile e penso che non sia una questione di cui si debba fare carico l’Università, sarebbe troppo facile ogni volta scaricare il degrado sul Rettore di turno.

Andrebbe organizzata, al contrario, un’operazione concertale tra Ateneo, Comune, Prefetto, Forze dell’Ordine che devono agire di concerto. In questo senso l’indicazione di una politica urbanistica che formi un tessuto connettivo credibile sarebbe importante per la città.

E la presenza nella zona di eventi culturali o artistici potrebbe migliorare la situazione?

Certo potrebbero essere utili. Tra l’altro è inevitabile che nei luoghi dove vi è incontro di giovani, di generazioni studentesche, cioè di ragazzi che vanno dai 18 ai 25-26 anni, vi sia dell’allegra confusione.

Chi viene a studiare da fuori e compone quella linfa importantissima di cui parlavo prima, viene a Bologna per un’esperienza di vita complessiva dove è impossibile distinguere tra studio, frequenza a lezione, divertimento, musica e altro. La vita è un continuum di cose. Questo di per sé può rendere Bologna estremamente interessante. Ma renderla interessante e renderla degradata sono due cose molto diverse.

ILA E LE NINFE

Un’ultima domanda, prima di concludere, che rivolgiamo più al Professore di Diritto Canonico che al Presidente della Fondazione Golinelli, per analizzare un fenomeno che da ultimo caratterizza il mondo dell’arte nel mondo occidentale: la censura del politically correct. Gli esempi in questo senso si sprecano, uno dei casi più evidenti è quello della Manchester Art Gallery dove il quadro “Ila e le Ninfe”di John William Waterhouse, (1896), è stato nascosto al pubblico perché ritenuto sessista (il quadro rappresenta delle ninfe nude che tentano un giovane uomo nudo). Lei cosa pensa di questo fenomeno da studioso?

Io sono per il politically uncorrect.

Penso che viviamo un periodo di stupidità da questo punto di vista e, soprattutto, penso che la teoria dei diritti soggettivi non possa essere piegata fino alla sua perversione secondo la quale, ogni desiderio al mondo, debba essere riconosciuto e difeso dagli ordinamenti giuridici. Questa io la trovo  una barbarie. Così come trovo ridicola, per esempio, l’esasperazione di tutte le questioni di gender che nella loro proiezione parossistica, tendono ad essere più puritane dei puritani. Ma più puritano del puritano c’è solo il ridicolo.

Noi usiamo salutare i nostri ospiti chiedendogli di proporci un brano musicale, una canzone o una traccia da loro proposta. Lei come ci saluta?

Scelgo le prime cose che suonavo con la chitarra. Da una parte “Blowing in the wind” di Bob Dylan e dall’altra “Il Suonatore Jones” di De Andrè. Due canzoni in cui ci sono due cose molto importanti: la polvere e il vento.

Essere cercatori di vento è una buona cosa.

Perché Bob Dylan non è meno di Stockhausen

Nato a Bologna il 2 marzo 1952, Mauro Felicori, è stato per gran parte della sua carriera professionale dirigente del Comune di Bologna nel settore della cultura. Primo laureato della sua famiglia, “come Guccini”, dall’ottobre 2015 è direttore generale della Reggia di Caserta, dove ha messo in atto una vera e propria “rivoluzione culturale” sostenuta dai numeri e condivisa da molti ma anche messa discussione da diversi critici. Con il Direttore abbiamo parlato dell’attuale situazione del turismo in Italia, della Riforma Franceschini, della sua e nostra Bologna e persino di Bob Dylan e Stockhausen. Una lunga chiacchierata per capire come sia possibile e perché sia importante rendere i beni culturali economicamente produttivi e per scongiurare la fobia dell’intervento privato nel mondo della cultura.

In realtà non conosciamo l’Italia

Noi l’Italia non la conosciamo. Sappiamo a memoria il lungo elenco dei suoi problemi strutturali, e magari abbiamo anche idea di come affrontarli, ma non siamo nemmeno in grado di indicare le preoccupazioni che affliggono le famiglie nelle nostre periferie. Siamo gli aristocratici europei, che nei secoli passati passeggiavano per la penisola leggendo Orazio e credendo di essersi inebriati di spirito italico. Non si può dire di conoscere un paese se non si capisce cosa prova il suo popolo. Che come ogni popolo ha due caratteristiche fondamentali: apprezza chiunque lo stia ad ascoltare (possibilmente dandogli ragione), e difficilmente offre una seconda possibilità quando si sente tradito. A dire il vero, in democrazia ce n’è anche una terza: quando il popolo vota, si prende le sue rivincite. Tutto normale, che come sempre non vuol dire giusto: le rivincite curano l’orgoglio, ma non i problemi, che anzi si ammassano fino a franarci addosso facendoci più male di prima.

 Però possiamo consolarci: non siamo più i soli a non conoscere l’Italia. Molti si sono uniti a noi in questi anni in cui nulla sembrava essere cambiato, mentre tutto è stato stravolto. Oggi ci fanno compagnia una schiera infinita di quotidiani, giornalisti, intellettuali, commentatori, media di vario calibro. Interpretano nicchie sempre meno rappresentative, e influiscono su un’opinione pubblica sempre più ristretta. Non è colpa loro se il mondo è cambiato rapidamente, ma di certo non si sono adattati. E se non lo faranno in fretta, i danni ricadranno su tutti noi.

Globalizzazione, digitalizzazione e disintermediazione lavorano in perfetta armonia. La globalizzazione, immatura e incontrollata, ci consegna un mondo fatto di pochi vincitori (noi siamo fra questi) e di molti vinti. La digitalizzazione offre ai vinti innovative forme di comunicazione. L’effetto è l’ennesima disintermediazione: inascoltati, delusi e frustrati, i vinti non chiedono coerenza nelle risposte, ma attenzione per le loro domande. Perciò comunicano su canali nuovi e incontrollati, si riscoprono come un unico popolo, e attendono un leader che ricordi loro come funziona la democrazia. Il nuovo equilibrio si mantiene per qualche tempo, ma presto anche il nuovo leader diventa vecchio: viene triturato dalla velocità con cui le informazioni circolano e sbugiardato dalla semplicità delle promesse che inevitabilmente non potrà mantenere. Domenica i vinti si sono presi la loro rivincita, nel segreto dell’urna. La “sinistra”, sempre meno interessata ad ascoltare le loro opinioni, continua a morire sotto i colpi della disintermediazione. Matteo Renzi ha cercato di trovare una nuova chiave di lettura, e ha fallito. La maggioranza dei presunti leader che affollano le sue sponde è affondata con lui, e a differenza sua nemmeno ha ancora capito la gravità del problema.

Conosciamo i problemi dell’Italia e, a differenza di altri, abbiamo anche alcune idee realistiche su come risolverli. Ma questo paese, nel profondo, non lo conosciamo. E, d’accordo, da Matteo Salvini è inaccettabile prendere lezioni. Ma dal Movimento 5 Stelle qualche ora di ripetizione potremmo accettarla, per imparare di nuovo come si fa ad ascoltare tutti i cittadini, e non solo quelli a cui piace ascoltare noi. Prima che anche Luigi Di Maio venga sommerso tra i flutti del dissenso, e prima delle prossime elezioni. Forse c’è ancora tempo, aspettando che il mondo cambi ancor più radicalmente. Perché presto succederà.

Alessandro Cillario


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