La provincia di Verona e i suo ristoranti

Mancano dieci minuti, tranquilli. Però sono ancora sul letto e ho dormito poco, come al solito. Dieci minuti per essere dall’altra parte della città, dieci minuti per poi pentirsi di questi dieci minuti perchè se ti fossi alzato prima dal letto saresti arrivato puntuale. Ma no va bene così. Ancora dieci minuti. Lo dicevi alle scuole quando arrivavi in ritardo, lo dici adesso quando hai una riunione importantissima e non puoi usare nessuna applicazione digitale perchè il telefono è scarico. Però non ti fai molti problemi. Ti alzi a quaranta secondi dalla riunione prefissata, fai colazione, vai in bagno e accendi la doccia. Ora sei ufficialmente in ritardo, ma tanto in ritardo sarà anche il collega x o il collega y. Con onesti quindici minuti di ritardo base, scendi le scale, annuncia che c’è traffico e sei a posto, tanto alla riunione devi stare zitto, prendere appunti su un quaderno pieno di scritte che non riguardano il lavoro e quindi va bene così. Con onestissimi trentacinque minuti di ritardo arriva in azienda. Saluti la segreteria, la vigilanza, l’amico che fa qualche lavoretto in nero e un paio di colleghi che vivono in pausa caffè. Arriva al tuo piano, cammini testa bassa ma veloce (così sembra che tu ci tenga particolarmente) e apri la porta. Nella sala riunioni si parla di argomenti vari: cosa hai fatto durante il weekend / il ristorante che ti è piaciuto nella provincia di Verona / dove hai comprato quel vestito / quanto è bello il nuovo programma del presentatore x o y. Insomma, ritardo ok, nessuno parla di niente. Ti siedi, nessuno si accorge di nulla “buongiorno, salve, ciao a tutti” generico e via. Passano altri 20 minuti, arrivano altri ritardatari che specificano “c’è traffico” e dopo circa settanta minuti si inizia. Partono delle slide, qualche commento brillante, altri noiosi, risate, computer che si blocca, powerpoint che non si caricano e “pausetta?” quindi tutti fuori sigaretta, niente da dirsi e poi di nuovo dentro. Chiacchiere sul tema, io non segno nulla, dibattito sul tema totalmente inutile, io non segno nulla, discorsi motivazionali, per fortuna io non segno nulla, “pausetta?”, risposta celere “no dai aspettiamo la pausa pranzo”. E ancora video, powerpoint, chiacchiere, ristoranti in provincia di Verona, piani strategici e nulla di fatto. Ah, se non fosse chiaro, io non ho segnato nulla, ho fame e anche sonno perché come al solito ho dormito meno di quello che avrei dovuto. Si va in pausa pranzo, saluti a tutti con generico “grazie a tutti, buon pranzo” e via. Scappare. Scappare da pranzi portati da casa in ambienti umidi con forno a microonde che esplode di unto e sapori di vario genere. Scappare da tavoli in legni con il segno di unto e forchette di plastica. Scappare da conversazioni su quali ristoranti meritano nella provincia di Verona e analisi sul programma televisivo del presentatore più mediocre della storia della televisione Italiana. Io passo. Vado.

Mi piace mangiare in due posti qui a pochi passi dal centro; il primo è un ragazzo che non ha nemmeno 30 anni e ha ereditato questo chiosco dove fa dei panini meravigliosi. Sono grassi però con meno di 10 euro hai pure contorno e bicchiere di vino che a me non dispiace. Solo che mangi nelle sedie di plastiche e di fianco c’è un parco dove la notte succedono una marea di cose e i residenti si lamentano, vabbè le solite cose per tutelare i bambini insomma. L’altro posto invece è la mensa aziendale però non di nostra proprietà. Ho fatto amicizia con la sicurezza nel corso del tempo ed entro senza problemi. Menù fisso, cibo livello piuttosto mediocre però insalata corposa con una birra abbastanza economica. Poi mangi all’aperto o comunque in spazi ok. Oggi sono andato qui. Finisco il pranzo e ritorno in ufficio. Ho una scrivania disordinata dove al mio fianco c’è una stampante. Il mio lavoro consiste nel prendere appunti, fare dei riassunti e quando qualcuno ha bisogno stampare dei piani strategici aziendali che non leggerà nessuno. Mando qualche mail, sono in copia ad altri. Tutto scorre abbastanza tranquillo. Ogni giorno è uguale: mattinata di riunioni come sopra quindi inutili solo perchè capire quali cazzo di ristoranti non sono male nella provincia di Verona e il pomeriggio completa inutilità. O meglio, per molti è come operare a cuore aperto e girano, corrono, urlano, si indignano. Molti ci tengono lo vedo nei loro occhi. Sono attaccati a tutto questo con le unghie e con i denti. Lo stipendio è ok, ma non stiamo facendo i soldi. Lo stipendio è ok, ma non stiamo contribuendo alla rivoluzione. Qualcuno si è comprato il Porsche in leasing spacciandosi per milionario. Qualcuno si è comprato un ristorante fallimentare spacciandosi per imprenditore. Qualcuno ha la ragazza molto giovane spacciandosi per giovane. Ma in realtà facciamo consulenza finanziaria e durante le riunioni parliamo dei ristoranti in provincia di Verona.

Sono finito qui perchè mi piaceva l’idea di avere uno stipendio fisso al mese e non pensare troppo a quanto facessero cacare le mie passioni e soprattutto quanto la mia vita privata, fosse solamente un vezzo da giovane che non ha vissuto gli anni 70. Quindi ho detto ok, faccio questo e non penso. E quindi ho scelto delle giornate abbastanza simili tra loro, che trovano una profonda gioia nella pausa pranzo e nella notte prima di dormire con qualche vino di alta qualità che posso permettermi perchè “ei, lavoro in finanza ho qualche soldo”. Pago l’affitto in tempo, non cerco casa da acquistare, mamma e papà tutto ok, fidanzate nemmeno l’ombra, amici per me ancora troppo debosciati e divertimento pari allo zero se non altro perchè odio Verona e la sua provincia quindi, tutti sti cazzo di ristoranti che ho segnato non me ne faccio assolutamente nulla. I pub mi fanno orrore perchè puzzano del microonde che abbiamo in ufficia e le birre artigianali mi portano al cesso dopo venti minuti; le discoteche dove bisogna andare vestiti bene le odio perchè tanto non mi fanno entrare. I ristoranti? Quelli ok ma con chi ci vado? I miei amici sono ancora nella fase Erasmus e quindi devono bere i cocktail a 3.50€ con il gin del discount e le ragazze appena mi vedono preferiscono i miei superiori perchè hanno una macchina in leasing che non possono permettersi. Insomma, vivo un po’ nel limbo di compiere 30 anni (che non sono tanti, ma nemmeno pochi) aver studiato quello che c’è da studiare, aver ammazzato ogni tipologia di sogno della mia vita o ambizione e avere freddo, ma così tanto freddo che tanto chi vuoi che mi possa cacare per cambiare le cose in questo mondo dove si parla dei ristoranti in provincia di Verona. Che poi parliamoci chiaro, non ho niente contro Verona e la sua provincia, ma qui vanno tutti lì nel weekend, io ci sono stato allo stadio durante i fine settimana al liceo, nel senso che guardavo dello sport e poi mangiavo quello che c’era. Però ok. Contento che piaccia. Lo stadio non mi è mai piaciuto però ok. Le mie giornate sono così. Si ripetono e fluidificano verso lo scorrere del tempo. Ogni giorno è più snello. Arrivi, ascolti, mail, fotocopia, leggi e aspetti che sia finita. E così via. Qualche passatempo, due battute coi colleghi che non puoi vedere nemmeno per sbaglio e basta. Fine. Poi arriva il momento delle feste aziendali, due volte l’anno. Solo due per fortuna.

Cene aziendali. Vestiti bene, pulisciti perbene, renditi presentabile. Stasera c’è la festa di fine lavori quindi hai il dovere morale di divertirti. Nel corso degli anni durante le feste aziendali ho passato una montagna di tempo a socializzare con il personale della location piuttosto che affrontare tematiche lavorative o extralavorative con colleghi e collaboratori. La fortuna delle feste aziendali è che c’è open bar. La sfortuna delle feste aziendali è che si mangia molto male perchè bevi troppo, fumi di più e alla fine ti ritrovi a bere del cibo, mangiare delle sigarette e fumare dell’alcool.  Arrivati alle cene aziendali o feste o chiamatele come vi pare, le prime persone che trovi sono anche quelle che non vorresti vedere mai più nella vita, quelle con cui non ha niente da dire sul lavoro figurati fuori dal lavoro. E niente. Arrivi e ci sono loro, quindi tenti un discorso anche se loro vogliono nascondersi perchè alla fine queste considerazioni sono reciproche.

Oh meno male che c’è Emilio penso, perchè Emilio lavora con me ed è almeno una persona gradevole. Non proprio l’amico che vorrei tutti i giorni della mia vita però almeno ci si può parlare di cazzate. Emilio però in queste serate è programmato per fare sesso. Nel senso che attende questo giorno per tutto l’arco di un anno, quindi tendenzialmente non parte subito in quarta bevendo alcolici e cerca di fare fondo con il cibo. D’altronde i veri professionisti iniziano subito mangiando come degli avvoltoi per tenersi lucidi nei momenti decisivi. Mangia Emilio, mangia con quei 3/4 soggetti che sul lavoro ma soprattutto anche fuori, non vorresti nemmeno incrociare per strada. Soggetti che hanno personalità fino a quando c’è da vestirsi sul lavoro e mettersi del dopobarba, però poi durante le riunioni non commentano. Fuori dalle riunioni non parlano. Al ristorante fanno battute che semplicemente no, non fanno ridere. Emilio è con la squadra di calcio di avvoltoi. Molti di loro hanno famiglie e fidanzate però oggi essendo una roba aziendale, non c’è nessun invitato extra quindi possono sognare di fare il “colpaccio” come dicono loro.

Io invece inizio a bere subito a stomaco vuoto, perchè così passa prima, perchè almeno riesco a socializzare, perchè tutto sommato fare amicizia con il personale in caso di qualunque cosa (incendi, risse, terremoti, uragani, un auto che entra spaccando tutto, qualche attentatore) può essere utile. Tutti invece vanno a salutare i loro superiori, fanno qualche battuta per rendersi simpatici, poi salutano altri superiori di altri reparti e così via. Fino a quando il superiore di un superiore non si saluta e tutto sommato la gerarchia si mantiene quindi va benissimo. Di solito la mattina arrivo in ritardo, di solito uscito dal lavoro faccio cacare, di solito a metà pomeriggio vengo redarguito perchè ieri sera ero in un posto dove non potevo essere. Di solito un sacco di considerazioni fanno. Io continuo a fare quello che mi pare. Però sì, le persone sono per tutto l’arco di tempo al lavoro e fuori delle persone serissime, rigide, devoti alla causa con una serietà pazzesca. Alle cene aziendali o feste insomma, però, si distruggono e arrivano fantasmi, vermi e zombie. Sembra carnevale ma in realtà è un banalissimo open bar di livello medio (mai alto). Trovare certe persone che lavorano con me nella mensa aziendale (che odio) o a mangiare qualcosa di preparato a casa alla scrivania (che odio per via degli odori che non sono legali secondo me) e poi vederle qui in versione carnevale travestiti da zombie mi fa un po’ strano. Però io non giudico, faccio sempre cacare quindi è giusto non soffermarsi troppo altrimenti poi dicono che sei poco simpatico (cosa vera). A un certo punto nelle cene aziendali qualche superiore prendere il microfono e fa un discorso che non ha senso. Non ha senso perchè predica tutto ciò che lui sul lavoro non fa + è molto ubriaco + manca spesso di linguaggio corretto in Italiano quando parla. Però seguono applausi, molto Fantozziani però applausi.

Emilio e la squadra di calcio sono pronti, per tutta la cena si sono fiondati sulle ragazze che lavorano nel settore C della nostra società. Ragazze carine, serie, di un certo tipo. L’attacco è partito da tempo però, grazie a un giro di like e commenti/reazioni nel social network più popolare del momento. L’attacco parte sempre dal digitale perchè poi di persona non c’è mai un cazzo da dirsi mi sa. Sono oggettivamente bei ragazzi e sono oggettivamente belle ragazze, sembra tutto così naturale e lecito se non fosse per i vari capi reparto che nonostante le condizioni pessime in cui si ritrovano devono essere al centro dell’attenzione. Quindi si sta lì, si chiacchiere, si ride, si scherza, ma non si può dimenticare chi ha permesso tutto ciò. Quindi nonostante il desiderio sessuale, l’alcool, le sigarette, qualche staffetta nel bagno più vicino in maniera compulsiva e del cibo mangiato a raffica dopo 20 minuti, il focus deve rimanere rendere grazia al tuo superiore. Un colpo qua, una botta là, un bicchiere qui, una sigarettina ma stare sempre lì. Però gli avvoltoi pressano, dalle sudate della cena si passa al danceflooer, si passa a dire frasi all’orecchio da vergogna all’altro sesso. A sorridere, scherzare, fumare, bere, bere, bagno, scherzare, frasi volgare, sudare, rendere grazia al capo e così via. Per ore, in maniera estenuante. Io invece sto vicino al dj che di solito è uno che lavora in azienda ma non conosco. Di solito è uno non troppo simpatico. Ci guardiamo, faccio cenno con il bicchiere. “Cazzo vuoi” mi dice. “Cazzo vuoi te” rispondo.

Fanculo, fanculo. Torno al bar dove ormai sono il re perchè sono gentile, premuroso, curioso e mi vedono spesso. Mi trovo molto bene, mi sciolgo saluto qualcuno, accenno dei sorrisi che sono a metà tra l’imbarazzo di un possibile assassinio e la felicità di aver perso una persona molto cara però c’è qualcosa in eredità. Sembro divertito, in realtà vorrei picchiare il dj, sperare in qualcuno che si faccia esplodere e poi andare a dire due o tre cose al capo giusto per fare della polemica fine a se stessa. Poi arriva Emilio, Emilio non si regge in piedi. Emilio suda troppo però sta raggiungendo il suo obbiettivo. Riporto Emilio sulla terra: tua moglie? Mi manda a cacare, non ha pensato a cosa come dove perchè praticare adulterio. Poi si ferma. Comunque è tornato sulla terra. Il suo fermarsi però purtroppo lo pagherà ad alto prezzo perchè qualche altro compagno di squadra, della sua squadra, sta arrivando a obbiettivo prima di lui. Emilio è tagliato fuori. Ma molti altri vengono tagliati fuori. Lo si vede, sono stanchi. Sulle gambe, non c’è più nulla che possa rialzarli. È molto tardi, le condizioni sono molto precarie, io ho sempre molta lucidità anche perchè in questi momenti firmo il mio rinnovo contrattuale ogni anno. Sì, perché finisco sempre tra gli ultimi e tra gli ultimi ci sono sempre i vertici. E i vertici mi vedono ogni anno sempre tra gli ultimi e i vertici sono in situazioni dove non dovrebbero essere. Quindi guardo, sorrido un po’ più rilassato e mi diverto. La pista da balla invece è un campo di morti, quello che si è fatto ormai è andato, chi rimane è disperato. Si cerca qualcosa/qualcuno come se fossimo nelle peggiori discoteche under 16 a cavallo tra il vecchio e nuovo millennio. Solo zombie e morte. Testosterone altissimo, odori che non voglio ricordare altrimenti sto male e ogni forma di sudditanza verso i tuoi superiori è finita.

Io faccio chiusura, Teresa da tutta la sera mi ha promesso un passaggio in macchina. In macchina, in stato drammatico, siamo in 6 con 5 posti. Io abito vicino alla location. Ovviamente si porta a casa prima il superiore che sta davanti anche se è alto 165 cm, poi le due ragazze stremate che mi dormono addosso e infine rimaniamo io, Teresa e questo gigante spappolato che in macchina ha voluto farsi un sacco di foto con ste due ragazze che dormivano e me che non ridevo mai poi si è pure incazzato, ma cazzi suoi. In tre in quella macchina c’è un po’ di imbarazzo, non capisco bene la situazione però so che il prossimo sono io. “Ti lascio qui va bene” – mi lascia a 30 minuti a piedi da casa mia. Io sta cosa che ti lasciano a una fermata di un mezzo pubblico o a un taxi, dopo essere passato a 10 metri da casa tua non la capisco. “Ah va bene” – non fai in tempo a dire/spiegare/argomentare che sei già fuori dalla macchina. Scaricato, devi anche ringraziare. Ti sei fatto tutta la città, sei passato a 10 metri da casa e niente, vai scaricato e ringrazia. Cammino lungo la strada, ormai sta diventando giorno. Il cellulare è quasi scarico, tutto sporco che fa cacare.

Arriva una mail. È un ringraziamento per la bella serata da parte del capo reparto. Apri un social popolare, ci sono tag, menzioni, immagini. La mail del capo reparto è scritta in una lingua diversa da quelle conosciute.

“Ho dimenticato il regalo aziendale” penso guardando un popolare social all’alba sotto casa fumando la penultima sigarette della mia eterna giornata.    Il regalo aziendale è una candela. Una candela. Di quelle biologiche odori cose. Una candela. Vado a letto, se penso alla placca in acciaio dello scorso anno sto male.

Una storia sospesa

Il problema principale della solitudine è il potersi esprimere. Da molto tempo avevamo l’idea di fare un romanzo collettivo, prima fra un gruppo ristretto di persone, poi allargato a una comunità intera. Siccome il tempo libero è decisamente aumentato per la maggior parte delle persone, quale miglior occasione per realizzare questo progetto? Abbiamo voluto chiamarla “una storia sospesa” perchè sarebbe bello che ognuno mettesse un piccolo mattoncino per far proseguire il prossimo, in questa staffetta creativa che gira liquida nel mare di internet ma che ci lascia un profondo senso di intimità e non per forza ci obbliga a metterci la firma. Guardate a che punto è il protagonista, cambiate il punto di vista, fate entrare nuovi personaggi nella storia, riportate in vita i dinosauri, andiamo a vivere su marte, creiamo una nuova società o semplicemente, scriviamo una storia d’amore che va a finire male. Insomma, le possibilità sono infinite, c’è solo bisogno di una sana collaborazione e una volta che hai fatto, puoi rifarlo, dirlo a qualche amico o semplicemente tenere la storia lì, in sospeso, tanto qualcuno passerà e tutto proseguirà.

Per partecipare alla scrittura collettiva di questa storia, che lasceremo in sospeso fino al 10 Maggio -> CLICCA QUI, ENTRA E SCRIVI

NB: chiaramente ci riserviamo il diritto di censurare eventuali scritti completamente devianti e/o offensivi nei confronti del lavoro o dei pensieri delle altre persone che hanno deciso di collaborare.

I PASSAGGI SONO SEMPLICI:

1- entra a questo link;

2- leggi a che punto è la storia;

3- prosegui, porta il protagonista in un altro paese, cambia punto di vista. Massima libertà di espressione;

4 – assicurati che sia tutto salvato e chiudi;

5 – pubblica una storia su instagram/facebook/twitter, tagga il nostro account @collettivohmcf o utilizza #unastoriasospesa (così almeno ti veniamo a cercare);

6 – lascia la tua firma sul romanzo collettivo, puoi farlo se vuoi, scrivendo il tuo nome in fondo al documento di testo;

7 – #laculturanonsiferma ma soprattutto in un periodo del genere bisogna far correre le idee a velocità doppia, senza paura o timidezza;

 

 

 

Quella lavatrice della nostra società

Ho smesso di essere idealista tanti anni fa, forse troppi avendo appena 28 anni. Ho smesso di essere idealista quando mi veniva insegnato di non lasciare i calzini spaiati prima di fare un lavaggio con la lavatrice. Ci fosse una volta in cui ho fatto questo passaggio giusto negli ultimi 10 anni. Ho smesso di essere idealista perché sono anche bombardato da input ovunque e la mia capacità di concentrazione – mai stata eccelsa – è andata lentamente a sgretolarsi. Ho smesso di essere idealista perché non credo a nulla, sono figlio perfetto e mediocre della mia filter bubble, ho un castello con tante attività e sono soddisfatto così. Ho smesso di essere idealista e questo va bene perché il problema è quando smetti di essere. Lì ci sarebbe bisogno di aiuto, ma non è forse questa la società giusta, anzi.

Una volta ho letto uno di quegli articoli generazionali, non ricordo esattamente su quale sito autorevole che ha fatto un buon lavoro di SEO, che spiegava come il massimo delle mie capacità celebrali dovrei ottenerle proprio ora, dai 25 ai 30 anni, poi proprio come la carriera di un calciatore, inizierà una fase di “tenuta” e infine un processo di deterioramento. Tutto sotto controllo, normale, anche se a differenza di un calciatore, purtroppo con il cervello devo camparci altri 40 anni. Non so esattamente cosa mi abbia spaventato di questo concetto scritto da un blogger pseudo studioso, però ogni tanto ci penso e moralmente mi abbatto. Ma non è l’unica volta che accade, succede spesso, guardando soprattutto quello che faccio durante le mie giornate da libero professionista, tra responsabilità e scadenze, in un mondo, come quello della creatività (che schifo scrivere sto termine) che vive di tremenda meritocrazia. Il bravo è ok, il finto bravo pure, il resto si perde nel mare di persone a cui manca qualcosa. Insomma un sistema bulimico che unito al tempo in cui bisogna muoversi non può farti vivere tranquillo, non tanto per il futuro dei nostri figli (che non avremo) ma per il domani ore 10.00 della mattina davanti allo smartphone. Julian Barnes, che ha scritto tanti libri in grado di renderti il presente una merda ma il futuro tutto sommato ok, nel suo celebre “Il  rumore del tempo” racconta la vita del compositore Dmitrij Dmitrievič Šostakovič e il suo equilibrio precario all’interno del Regime Sovietico. Quello che emerge perfettamente è che per quanto tu faccia una cosa, nel modo giusto, nel contesto giusto, potrebbe esserci qualcosa che non suona come dovrebbe. E quindi sì, le cose vanno bene, sono felice, lavoro e non posso lamentarmi della mia libertà. Eppure proprio a far partire la lavatrice con i calzini accoppiati non ci riesco, piuttosto morirò nel letto a enfatizzare il mio malessere invece di perdere quei 10 minuti per ottenere qualcosa di più pratico una volta finito il lavaggio. Insomma ho smesso di essere idealista e forse questa cosa condivisa da molti è normale, però spero mi resti quel tanto che basta per continuare a essere, altrimenti in questa giungla non sarà solo la meritocrazia a farmi ritirare, ma pure la lavatrice a inghiottirmi.

Unanima può essere distrutta in uno dei seguenti tre modi: attraverso ciò che ti fanno gli altri; attraverso ciò che gli altri ti costringono a fare a te stesso; e attraverso ciò che tu stesso decidi di farti. Ognuno di questi metodi è di per se sufficiente; certo in presenza di tutti e tre, il risultato è impareggiabile.  Il  rumore del tempo, Julian Barnes

Uno spaiato posto fisso

È primavera, l’inverno ormai è terminato e nonostante la pioggia a giorni alterni, questo clima di cambiamento ha spinto fortemente la mia persona a prendere decisioni importanti, soprattutto dopo Margot, l’aumento del mio stipendio grazie a Damiano e altre cose tipo il ritrovamento di alcuni calzini spaiati dietro il mobile della cucina, pieni di polveri e ormai sedimentati nell’intonaco del muro. Non proprio un grande affare, ma ricordo ancora che nello spazio temporale in cui ho smarrito quei calzini sono cambiate tante cose nella mia vita.
Oggi faccio il mio “nuovo primo colloquio di lavoro” a distanza sempre di quel famoso spazio temporale non definito e figlio di un posto fisso alienante, ma pur sempre posto fisso e soprattutto, posto fisso ben retribuito con tanto di aumento. Però saranno i calzini ritrovati, Margot o più semplicemente il fatto che non fa più così freddo e la pioggia è diventata quasi abitudine sulla propria pelle.

Mi prendo la mattina, Damiano non è a conoscenza di quanto sto facendo eppure ho letto che in questa nuova società, creata da alcuni coetanei, cercano persone in linea perfetta con la mia esperienza ma soprattutto con le mie passioni.
Dinamismo, colori, poster, fantasia ma soprattutto simpatia e nessuno in abito firmato. Mi riceve Luca, che è un ragazzo piuttosto alto ma soprattutto più giovane di me. Luca ha studiato, si è documentato, ha fatto le sue esperienze, poi è riuscito nel suo sogno o almeno dice la frase «non rischi non vinci». Luca con la sua società lavora per la comunicazione legata all’impresa e con il passare del tempo mi coinvolge sempre di più nel suo progetto con frasi tipo «siamo gli unici a rovesciare il concetto di imprenditoria Italiana». Per me, abituato a passare da uno studio legato alla finanza, dove le mie mansioni sono rispondere al telefono e fare fotocopie, queste parole suonano come benzina necessaria ad azionare tutti i miei istinti nascosti. Quelli che se uscissero con Damiano al lavoro mi permetterebbero di dire ogni tanto no, mentre con Margot almeno di riuscire ad arrivare in tempo prima della sua partenza. Questione di immobilismo, conservazione e soprattutto «lasciar correre le cose» che poi se le cose vuoi davvero lasciarle correre, non è che ti puoi lamentare dopo se corrono così veloci che non riesci manco a ritrovare i tuoi calzini spaiati nella casa in cui vivi da solo.

Luca mi convince. Qualcosa dentro di me sta cambiando con il passare del tempo. Contemplo e capisco finalmente l’importanza del tempo in questo colloquio di lavoro e oltre a non fossilizzarmi su piccoli dettagli come sempre mi accade, sono quasi disposto ad accettare di buttarmi in questa nuova avventura già da oggi pomeriggio.

«Mi hai convinto, davvero mi hai convinto. Andiamo a fare questa rivoluzione insieme!» interrompo Luca in modo entusiasta.

«Il tuo progetto mi piace ed è qualcosa in cui ho sempre creduto anche io, soprattutto nella vita di tutti i giorni.» Luca sorride, Luca mi stringe la mano. Poi Luca abbassa la testa, prende alcuni fogli, mi fissa guardandomi negli occhi e mi gira una proposta di contratto. «Sarebbero 6 mesi, retribuiti come uno stage a 350€ al mese, poi dopo si ragiona insieme in base a come sta andando la società e i lavori che ci stanno entrando.»

Nel mentre ascolto, ma soprattutto leggo la proposta di lavoro, nell’ufficio stanno sistemando computer nuovi e soprattutto scrivanie fresche figlie del design Italiano e sicuramente costose, con tanto di frigo bar vintage e musica jazz in sottofondo che risuona calda sopra il parquet nuovo, appena sistemato. Intorno a me, si vive uno scenario di cambiamento, Luca gira le spalle e io mi ritrovo con un contratto in mano da firmare che prevede una riduzione dell’80% di guadagno rispetto al mio attuale lavoro.

«Dovrei lavorare 8 ore al giorno come stagista? Ma non cercavate persone in grado di gestire la community, ordinare i precedenti lavori e proporre nuove idee? Con almeno dieci anni d’esperienza lavorativa?»

«Sì, però qui dobbiamo fare tutto, tutti. Ormai la professionalità è morta, bisogna dedicarsi al lavoro a 360 gradi.» sostiene Luca e prosegue «tu mi hai convinto, io vedo i sogni nei tuoi occhi e il fuoco che arde perchè la tua vita non è stata come te la saresti aspettata. Questo può sembrare un salto nel vuoto, ma è il progetto che ti può rendere felice lontano dalla monotonia e dall’establishment.» Monotonia, establishment, design made in Italy, parquet caldo, musica jazz, computer nuovi, penne colorate, post-it, muri dipinti e ancora musica jazz sul posto del lavoro. Diffidare sempre dalla musica jazz nei posti dei lavoro. Purtroppo c’è poco da appellarsi al caso, ma sul posto di lavoro è giusto ascoltare musica di merda che passano nelle maggiori radio nazionali e arrendersi a calmare quella parte del cervello che desidera dirti: no, questa musica fa cagare.

Ripenso a Margot, Damiano, e al fatto che lavorerei a 1400 metri da casa e quindi potrei risparmiare sui mezzi pubblici, alzarmi addirittura 78 minuti dopo la mia sveglia quotidiana, mangiare a casa per risparmiare e scroccare le birre dal frigo “aperto a tutti i dipendenti dopo le 17.30 e sempre rinnovato grazie ai dei nostri sponsor “dice Luca. Rompo il silenzio, stringo la mano, metto la proposta di lavoro nella tasca dei jeans che ormai non ero più abituato a portare e saluto con un sicuro «ti farò sapere».

Pranzare a casa durante la settimana è una cosa che mi manca spesso. Accendere la tv, spegnere il cervello e prepararsi un piatto di pasta finalmente scotto oppure troppo duro, sicuramente non perfetto e freddo come la mensa di fronte al lavoro o i panini unti del bar di Marisa. Damiano mi scrive un messaggio, nel pomeriggio devo lavorare: allora ieri sera? fatto serata? andato tutto bene? buongiorno.

Sono le 12.48, sono sveglio dalle 9.40 per andare a fare un colloquio in un posto dove mi è stato proposto un contratto miserabile per inseguire un sogno, soprattutto il sogno di qualcun’altro che ascolta musica jazz sul posto di lavoro e che con una serie di frasi a effetto contro l’establishment, è riuscito a fregarmi cogliendo la mia attenzione per troppo tempo. Ieri sera ho passato la mia serata in casa, mangiando un modesto petto di pollo e guardando alcune serie televisive Italiane di basso gusto in streaming perchè mi mancavano diverse puntate vecchie. In tutto questo però, oggi ho ritrovato i calzini spaiati che azzerarono lo spazio temporale della mia vita. Sono colorati. A righe rosso e nere, e giallo verdi. Forse ero più giovane, forse all’epoca avrei accettato l’offerta di lavoro di Luca o più semplicemente avevo un gusto decisamente rivedibile nel vestirmi. Però Margot non c’era più e forse non c’è mai stata, Damiano è un sincero pezzo di merda che mi ha aumentato lo stipendio quasi del doppio da quando è diventato il mio capo, ma soprattutto la mensa di fronte al lavoro ha messo dei comodi forni a microonde per scaldare i freddi piatti di pasta. Quindi tutto sommato non mi resta che fare una lavatrice, sistemare i calzini spaiati, prendere i mezzi pubblici, tagliare tutta la città, arrivare di corsa al lavoro, salire le scale di corsa, arrivare senza fiato, sedermi, ascoltare la musica che ci viene proposta, spegnere quella parte del cervello, fare fotocopie, rispondere al telefono, aspettare le 18.00, finire e fare tutto il processo sopraccitato al contrario. Forse oggi vedrò il mondo con una prospettiva diversa, forse se faccio partire in fretta la lavatrice domani potrò indossare quei calzini, magari lo spazio temporale in realtà non si è mai fermato.
O magari sì, questo lo scoprirò sicuramente domani.
Senza musica jazz però.

Si dimentica tutto – Bologna 2 Agosto

Svegliarsi a 15 minuti dalle 10, non è male. Prima porto fuori il cane, poi mi lavo la faccia e infine preparo la colazione aprendo qualche sito che mi intrattiene le giornate tipo facebook. Dietro accendo la televisione, sulle reti mediaset c’è il tipo de i fichi d’india – duo comico in voga anni fa – che racconta la sua drammatica storia. Ha rischiato l’evirazione perchè qualche chirurgo ha sbagliato il taglio per una liposuzione; bel casino se succedesse a me, poveraccio. Applauso in studio, io faccio zapping, mentre su facebook ci sono le prime notizie dall’estero, di cui non capisco molto. Politici parlano parlano parlano, interviste ad anziani sui giovani, ai giovani sul lavoro, agli immigrati su Salvini, a Salvini su Balotelli, a eterosessuali sui diritti omosessuali.

In tv c’è sta roba qui. Poi a un certo punto sento un gran boato, il cane scatta sul divano e si sentono dei gran rumori di allarmi. Nel mentre su facebook leggo che Ronaldo ha una dieta pazzesca, ma come fa?

Post contro Salvini, metto like. Segue applauso. Post contro i vaccini. Post contro politici corrotti. Post contro i 35€ al giorno per gli immigrati. Condivido una frase di Pertini. Metto like a una frase di Falcone contro la mafia.

A un certo punto, sempre su facebook, Gianni che andava alle medie con me e fa sempre ridere su facebook (dal vivo non parla molto) scrive “scusate il rumore, ho appena scoreggiato” Ahah la Carla e Dario commentano con “ah, ma eri tu? ahahah // mangiato pesante?”

In 20 secondi tutta la mia homepage parla del boato di poco fa, mentre le sirene continuano a suonare. “Terremoto a Bologna centro” titola ilcarlino.blogspot.com, apro la notizia, bypasso un video sulle diete ducane e in effetti ci sono foto di un centro storico distrutto. Però a me non pare Bologna, però non so.

“È scoppiata una bomba in stazione a Bologna” titola Repubblica. Urca, mi vesto e scendo. Michele Falsini, 75 anni è giù che controlla se il terremoto ha fatto danni al palazzo.

“A me sembra tutto normale” – Traffico infernale, persone che suonano il clacson, sirene e molti in strada a lamentarsi che il bus non passa mai. Io torno in casa. La notizia di Repubblica è chiaramente una fake news, così si mormora nelle chat uasap con i miei ex compagni delle superiori. “Quindi, domani pizzata?” – chiude il dibattito sulla notizia Paolo, che è sempre stato uno inquadrato nell’organizzare.

“Siiii” rispondo estasiato. Passa una mezz’oretta e alla televisione anche il tipo de i fichi d’india, messo da parte il suo dramma, commenta la presunta – così definita dalla bionda conduttrice – esplosione alla stazione di Bologna. “Federica, non so cosa dire, spero non ci siano morti, capisco il loro dolore e sono vicino alla città” applauso in studio, poi si torna a parlare con la figlia di Eva Henger, reduce dal reality sull’Isola. Io cambio canale.

Su facebook non si capisce se sia terremoto/bomba/ semplice scoreggia cit. Giovanni, nei salotti televisivi però partono dirette dalla stazione di Bologna. Una bomba 40 minuti fa, alla stazione di Bologna. Un politico in studio dice che – la tanto amata integrazione poi porta a questo – e aggiunge – questa gente non deve venire nel mio paese. Un altro opinionista teme il ritorno delle brigate rosse, chiaro esempio di grande tensione sociale dovuto alla globalizzazione. Infine uno che faceva politica, ma ora fa il vlogger in giro per il mondo, dice che con i terroristi islamici dobbiamo dialogare, capire perchè lo fanno. In rete stanno già organizzando comizi politici sull’accaduto e preparando un numero per donare 1€ vista la tragedia. Nel mentre il numero di morti aumenta, i dispersi pure, qualcuno chiede aiuto con il proprio telefonino. Io condivido il post e vado a farmi una doccia, dovrei andare dalla Mamma, purtroppo non posso passare dalla stazione.

Finita la doccia i morti aumentano. Immagine di sangue, autobus prestati ai soccorsi e persone che attaccano gli extracomunitari. Integralismo islamico la pista più accreditata, io sono senza parole, ho una forte rabbia addosso.

Il numero delle donazioni è attivo. Lo condivido. Anzi condivido lo screenshot dell’eurino che ho donato poco fa:

“Un piccolo grande gesto di umanità” #siamotuttiBolognesi questo pare sia l’hashtag ufficiale.

Parlotto con Nicola – il mio vicino di 85 anni – e mi dice che ste robe ai suoi tempi venivano vissute in altro modo, poi dice che ha un gran dispiacere e poco fa era stato in stazione ad aiutare e capire, niente è una tragedia per lui. Io mi vesto che vado da mia mamma, salgo in macchina e faccio il giro da dietro. Poi al semaforo scrivo un messaggio ad Alessandro, uno dei miei più cari amici, che lavora in stazione tutti i giorni e chiedo com’è la situazione, così magari al ritorno passo da lì che faccio prima ad arrivare a casa. Ultima connessione 10.25 segnala, vabbé intanto vado a farmi una bella tagliatella che ho fame. Poi magari stasera vado al cinema che il tipo dei fichi d’india ha fatto un nuovo film, anzi aspetta che lo chiedo ai miei amici di facebook va là.

Chiedimi se sono felice

Un giorno anche noi diventeremo delle mail che finiranno nello spam. Ragazzi rassegnatevi, lo dicono su tutti i telegiornali e neanche ce ne siamo accorti. In questo continuo flusso nevrotico di informazioni, non abbiamo colto l’unica cosa che ci fa restare umani ovvero le parole, ma quelle fatte bene, oneste e senza grande importanza comunicativa. Quelle sincere non filtrate, quelle vomitate e non digerite. A giudicare tutto ciò è l’orecchio soggettivo, la massa invece, non certificherà mai cosa è giusto e cosa è sbagliato nelle parole, in certe parole. Sarà che arriva l’autunno e la stagione delle parole diventa più intima, o sarà semplicemente che ormai ci vogliono social network per le immagini perchè – secondo alcuni – comunicano più delle parole. Sarà che gli speaker in radio non parlano più e che in televisione c’è bisogno di spettacolo, eppure le parole si utilizzano sempre ma non viene data più a loro la capacità di poter cambiare le cose, di renderci vulnerabili e di abbandonarci ogni tanto. Sarà semplicemente che non leggiamo bene come una volta e pensiamo che qualcuno lo faccia per comunicare, nulla più. Le parole non possono più essere uno strumento solamente per comunicare: devono fare male e bene. Riempire gli occhi senza alcun motivi, svuotare lo stomaco pur avendo mangiato e bruciarti la pelle. Che poi non c’è bisogno di razionalità in questo, non ci deve essere bisogno. Però la sviolinata è finita, le favole non esistono, dio forse nemmeno e quindi torniamo cinici, facciamo qualche foto e viviamo cliccando due secondi un contenuto/massimo tre per sicurezza. Mettiamo da parte tutte le parole e rassegniamoci, finiranno come una mail che diventa spam. Lo dicono al telegiornale, c’è scritto ovunque e molti ce lo spiegano. Con le parole appunto, ma non quelle parole. Comunicano sì. Ma noi non ce ne rendiamo conto e in fondo, non abbiamo capito se davanti a tutto questo siamo ancora felici.

Linea 20

A Bologna di mattina quando nessuno se l’aspetta c’è molta nebbia. Il cielo è grigio ma non scuro, consapevole che con il passare della giornata in qualche modo uscirà il sole. Nell’ultima periferia cittadina, a pochi passi dai centri commerciali e dalle prime frazioni in provincia lo spazio temporale viene tagliato dai mezzi pubblici e dal silenzio che lo smog accresce parallelamente al traffico. In fondo al quartiere San Donato, nella parte Nord-Est della città sorge il Pilastro quello che storicamente oltre a essere il primo contatto con l’area metropolitana può considerarsi uno degli organi più importanti della popolazione locale. Arte di strada, calcio tra le macchine, case popolari, centri commerciali alle proprie spalle, ampio parcheggio, campo da baseball, palestre ben curate, impianti sportivi: in sostanza un grande centro vitale per la città. In Via Salgari, sorge il “Virgolone” una struttura curvilinea di sette piani che prosegue per circa 700 metri e formato da oltre 500 appartamenti. Nato negli anni 70 dal bisogno di creare integrazione sociale per il quartiere e la città risulta uno dei grandi simboli di melting pot più duraturi e vivaci nel corso del tempo.

Linea 20

Il modo più comodo ed efficace per raggiungere il centro cittadino è la Linea 20, spesso dimenticata durante i suoi viaggi ma ben presente nelle vite di tutti dato che rimane l’autobus più frequenti nei passaggi proposti dalla linea di trasporti. La Linea 20 trova il suo capolinea proprio nelle dolci e vive curve del Virgolone. Ogni mattina a partire delle 5.00, lavoratori, studenti e famiglie iniziano la loro giornata proprio sulla Linea 20. Le prime fermate, attraversando il ponte sopra la tangenziale, portano a San Donato. Luogo più residenziale dove sorgono molteplici attività commerciali dalle varie sfumature che uniscono tradizione e multiculturalità.

A Bologna, chi non ha una parte della propria famiglia in San Donato sta mentendo o semplicemente, non ha vissuto veramente la città.

Linea 20

San Donato sulla Linea 20, quando il sole inizia sorgere e la mattina sta iniziando a farsi più chiara. San Donato, dove il Mercato è stato epicentro delle giornate della propria nonna prima di chiudere ed essere in fase di rinnovamento da circa 5 anni, ma tanto sei diventato adulto e forse quella voglia di quotidianità ormai l’hai smarrita. San Donato violenta, i ragazzi piuttosto attempati di Piazza Adam Mickiewicz quelli che giocano a carte e vanno al centro scommesse per arrotondare la propria pensione, San Donato vs Pilastro e quel derby fra società sportive che risulta essere un piccolo avvenimento per la vita da quartiere. San Donato dove i muri dei palazzi sono diventate opere d’arte e sorge il piccolo laboratorio di Ericailcane – street artist ma forse qualcosa di più – e in sostanza dove l’integrazione non è considerabile un valore, piuttosto una semplice conseguenza della natura. Perché qui, poco prima del ponte che apre le porte del centro, la piccola cittadina funziona anche se spesso ci si dimentica di lei, dei suoi problemi ma anche del prezioso tesoro che conserva tra studenti fuori sede in cerca di un appoggio tattico per la logistica alle nonne che vanno a ballare nella sala Sirenella, quella che una volta era una sede centrale per le attività politiche di un partito, quel partito che ancora qui esiste ma alle volte si dimentica pure lui delle sue persone. Che tu sia straniero o Italiano, qui le persone sanno rispettarsi e convivere in quella che si può considerare una prima periferia funzionante, culturale e viva dell’Italia intera.

Linea 20

Superare il ponte sulla Linea 20 significa scoprire il sole e sentire un vuoto allo stomaco perché gli autobus vanno veloci e quasi ti dimentichi di quando per entrare nel centro riuscivi a incontrare uno dei primi murales fatti da BLU – poi rimosso da qualche tempo a causa di una ristrutturazione. La strada si stringe, Porta Zamboni si illumina e Via Irnerio ha un sapore di metropolitana mai scontato per chi nasce e cresce in una città come Bologna. Via Irnerio è teatro di spettacoli che agiscono parallelamente nella zona universitaria. Ci sono studenti che scendono, studenti che salgono e studenti che non riescono a salire più. Via Irnerio significa Via Mascarella, strada che racchiude tutta l’essenza della città lungo tutta la sua storia secondo una contemporaneità disarmante: discoteche, jazz club, librerie indipendenti, copisterie, sedi universitarie, cinema indipendenti, ristoranti per tutte le tasche, il primo alimentari gestito da Pakistani in Italia, muri scritti, portoni alti e portoni piccoli.

Se vivi in Mascarella non hai mai bisogno di uscire dalla strada. C’è tutto e il contrario di tutto.

Linea 20In fondo a Via Irnerio prima di svoltare in Via dell’indipendenza sulla destra è possibile osservare la Montagnola. Luogo spesso soggetto di critiche perché negli anni 90 è stato protagonista e porto di quella che si può considerare molto più di una perdizione ma un quieto vivere abbastanza assodato. Tutti sapevano, nessuno denunciava. La gente moriva e in fondo andava tutto bene perché il cane possiamo portarlo da altre parti. In Montagnola ogni venerdì e sabato del mese c’è il mercato più grande in Italia – la piazzola – dove si può comprare di tutto a buon prezzo sentendosi comunque parte di una comunità attiva senza etichetta di genere o stato sociale. La svolta a sinistra in via dell’indipendenza è traumatica. Salgono turisti, fanno qualche fermata e una volta che il sole sta prendendo calore sulla tua pelle l’autobus si svuota arrivato in Piazza Maggiore. Qui il silenzio torna a salire e il sole molto spesso viene coperto dalla bellezza di Palazzo Re Enzo. Proseguendo su Via Rizzoli, oltre i grandi negozi e quel minimo contatto con le persone – già su Via Rizzoli non può avere dei rapporti umani perché la vita va troppo veloce e il commercio diventa sfrenato e privo di una comunità – la svolta a destra significa cambiare radicalmente prospettiva della città. La Bolognesità e l’artigianato storico cittadino emerge lungo il “quadrilatero” definito lo shopping più esclusivo con i locali più trendy che si possono trovare nel territorio Felsineo. Gli studenti universitari non esistono, il melting pot non esiste e nemmeno tanti problemi si nascondono dietro questa tradizionale città nella città. Pesce fresco, buon vino, mortadella di qualità e quel discutibile vizio di portarsi i propri mezzi davanti al locale in cui si sta consumando. La città diventa fredda, Via Castiglione con svolta in Via Farini coincide con lo storico Liceo Galvani e con questa freddezza inaspettata. Il sole è stato mangiato dai palazzi alti alti e tutto ciò che risulta diverso non diventa caratteristico ma forse problematico. La città si divide così con un polmone rosso e un polmone bianco, nascosto ma ben visibile e poco attivo. Via Farini scivola via in fretta con adolescenti che raccontano delle prime pomiciate nelle discoteche sui colli e qualche cannetta fumata nella piazza vicina di San Domenico. La svolta in via Collegio di Spagna verso Zona Saragozza riaccende lo spirito e la luce nei nostri occhi. Questa è la parte della città più tranquilla, discreta e residenziale. Dove la borghesia e il senso estetico delle strutture rende decisamente migliore accoglienza e integrazione senza però narrare vita notturna e luoghi peccaminosi. La calma che suscita l’arrivo al Meloncello di fianco allo stadio è scandito dalla lunghezza del portico di Via Saragozza che parte dai viali e arriva sino a San Luca, laddove nessuno sa ma il tempo non trascorre mai nonostante il grado della salita. Arco dopo arco, pietra dopo pietra con il sole che torna forte sulla tua pelle e l’autobus di nuovo pieno di storie, persone o semplicemente vite che si sono intrecciate.

Linea 20

Il centro ormai è lontano e Casalecchio di Reno non dista molto. C’è tempo per portarsi dietro le storie che sono state raccolte dalla partita di calcio e attraversare brevemente la prima periferia ben curata e con il fresco dei colli della città con San Luca che ti osserva e un sole che lentamente ormai si sta spegnendo. Casalecchio di Reno è un paese a pochi passi dal centro città ma un paio di secoli fa, chi risiedeva in centro passava qui i propri fine settimana estivi e caldi per potersi rinfrescare al Lido, tra il verde e il fiume Reno. Ora Casalecchio è diventato un centro economico, autosufficiente e dinamico. Una parte della città che riesce tranquillamente a vivere senza bisogno del centro cittadino. Casalecchio è grande, con una sua periferia e una certa volontà a non risultare un paese ma piuttosto un piccolo cuore della provincia dove poter andare nei centri commerciali, passare il tempo in biblioteche modernissime, ascoltare musica in centri ricreativi ben tenuti, frequentare scuole superiori e mangiare in ristoranti tipici per ogni tipo di tasca. Una parte che non si piega al senso di provincia e ben collegata. Con la linea 20 infatti inizia il tragitto nel tragitto. A Casalecchio ci fermiamo diverse volte e continuiamo a sentire il sole spegnersi ma ormai è finita la giornata, le persone escono dalle fabbriche e non vedono l’ora di poter tornare a casa per mangiare e poco altro. Ogni fermata è collegata con i paesi vicini e lontani oltre la stazione che porta persino al territorio Modenese diversi lavoratori. Qualcuno arriva al capolinea come me. Ormai qui si è fatto tardi, ma in molti devono solamente tornare indietro perché sono diversi chilometri per poter andare a casa, attraversare tutta la città ma in fondo essere felici. Perché da Nord a Sud di Bologna, la linea 20 è riuscita a prendere tutti, almeno una volta nella vita, riuscendo a cogliere tutti i nostri polmoni, regalandoci sole e nebbia, caldo e freddo ma soprattutto rendendosi profonda osservatrice delle persone di questa città. Come se fosse un discreto, borghese, multiculturale punto di riferimento.


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