CHEAP Festival: street art ≠ riqualificazione.

13 Aprile 2018,   By ,   0 Comments

Intervista a Sara Manfredi, co-founder e creative di CHEAPcura di Francesco d’Errico

Nato nel 2013, CHEAP è un progetto indipendente che promuove la street art come strumento di rigenerazione e indagine del territorio urbano. Dopo 5 anni, con un comunicato che ha fatto notizia, le organizzatrici hanno scelto di sospendere la realizzazione dell’omonimo festival, Cheap Poster Art Festival, esprimendo il loro totale dissenso verso la corrente visione  della street art come strumento di riqualificazione e di lotta al degrado. Un’intervista in cui abbiamo parlato di utilizzo di luoghi abbandonati e in disuso, delle scelte che la città sta facendo rispetto agli investimenti culturali, di gestione dello spazio pubblico, del rapporto tra istituzioni e realtà indipendenti e, infine, della funzione che la street art dovrebbe avere e che invece, secondo loro, a Bologna, oggi, non ha.

“Le festival est mort, vive le festival”. Dopo cinque anni avete deciso di non riorganizzare il vostro festival. A Repubblica avete dichiarato “ormai sui muri dipingono tutti, spegniamo il nostro festival”. La street art è diventata troppo pop?

Questa è una semplificazione, il problema è più complesso. Noi abbiamo preso coscienza del mutamento del contesto in cui oggi operiamo, il quale è molto cambiato da quando abbiamo cominciato. In questo momento c’è sicuramente una grande saturazione a livello di proposta di steet art, questo mi pare evidente. E poi, soprattutto, c’è anche la cattiva abitudine di affiancare gli interventi di public art e di street art all’idea di decoro.

Ecco, a proposito dell’idea di decoro, voi nel vostro comunicato di sospensione dell’attività del festival avete parlato di “imbruttimento del decoro”. Che cosa significa?

Quando parliamo di “imbruttimento del decoro” ci riferiamo alla diffusa ansia per le tag, al tirare in ballo il decoro come categoria da associare, paradossalmente, alla street art stessa. Abbiamo l’impressione che qualcuno voglia utilizzare la stree art come strumento per la ricerca di decoro. C’è in atto una normalizzazione della street art che è impropria, vengono richiamate categorie fuori luogo come questa. Tutto ciò, tra l’altro, nella continua contraddizione per la quale se uno street artist fa un intervento con un permesso in tasca il suo gesto viene considerato arte contemporanea, mentre se un altro street artist realizza un intervento analogo, simile ma lo fa senza permesso, la sua operazione viene considerata un atto vandalico. Se è la presenza o meno di un permesso a determinare la natura di un intervento artistico e a qualificarlo come “degrado” o come “decoro”, c’è qualcosa che non funziona. E’ questo tipo di narrazione che non funziona.

Sempre nello stesso comunicato criticate l’associazione tra il concetto di riqualificazione e gli interventi di street art. Voi stessi, però, vi presentate come una “realtà che promuove la street art per rigenerare e indagare il territorio urbano”. Dunque vi chiedo: cosa non vi piace del concetto di riqualificazione? E soprattutto: che differenza c’è tra rigenerare e riqualificare?

Il termine rigenerare è stato scelto da noi per il progetto Cheap On Board, un progetto che ha l’obiettivo di utilizzare il circuito di bacheche del centro storico, di proprietà del Comune, che erano abbandonate e inutilizzate da dei decenni prima del nostro intervento. Questo circuito è inserito perfettamente e pur essendo parte dello spazio pubblico era abbandonato sé stesso.

Il Comune, quando abbiamo realizzato Cheap On Board per la prima volta, era in difficoltà, non sapeva che utilizzo fare di questi spazi: non poteva togliere le bacheche ma non riusciva neppure a sviluppare progetto che le vedesse protagoniste. Noi le abbiamo notate e abbiamo trovato accordo col settore cultura per sviluppare progetti di varia natura; dall’arte visiva, alla street art, passando per campagne di comunicazione non convenzionale, fino alla promozione di campagne sociali. Intervenendo su questi spazi, in questo senso sì, li abbiamo rigenerati. C’era un supporto, uno spazio, un circuito che poteva veicolare diversi contenuti che noi abbiamo preso in mano e che era abbandonato. Ma questo non ha nulla a che vedere con l’idea attuale di riqualificazione delle periferie che viene tirata in ballo per qualsiasi intervento di street art venga in esse realizzato. Pensiamo che ci sia molta confusione e che in un contesto confuso si rischi di perdere lucidità. Noi non vogliamo perderla. Preferiamo dunque fare un passo indietro e ricalibrare il tiro.

Parliamo del rapporto tra street art e istituzione. Anche voi, come detto pocanzi, avete avuto rapporti con il Comune e con l’assessorato ala cultura della città. C’è qualcosa che non funziona più in questo senso? Visto il vostro comunicato ci si potrebbe chiedere che tipo di rapporto abbiate oggi con le istituzioni…

Noi abbiamo sicuramente trovato degli accordi con le istituzioni, le quali si sono dimostrate capaci di attenzione e che hanno saputo rispettare lo spirito profondamente indipendente di Cheap. Laddove la nostra indipendenza non è stata messa ne a rischio ne in discussione, per noi è stato facile mantenere rapporti con l’istituzione. Ciò che è cambiato oggi, nel contesto attuale, non è soltanto l’istituzione, la situazione attuale, infatti, è determinata da più fattori e da più agenti, non si può dare la responsabilità di tutto a uno solo di questi. E’ il contesto generale che noi leggiamo in maniera critica, leggiamo in maniera critica il ruolo che ci si aspetta da noi. Così si rischia di andare in una direzione che non ci appartiene o, peggio, si rischia di essere assimilati da un processo che noi rifiutiamo.

Descrivendovi sui vostri canali ufficiali parlate di voi come un gruppo che  agisce riappropriazioni collettive di spazi nei quali liberare energie creative”. A Bologna c’è un problema di spazi di cui riappropriarsi?

Che ci sia un problema di spazi è evidente. La presenza, dentro le mura, di un ristorante ogni 37 abitanti circa, è indicativa in questo senso. Io ho grande rispetto per chi fa ristorazione ma mi piacerebbe poter constatare la presenza di uno spazio culturale ogni 37 abitanti piuttosto che di un ristorante. Da ultimo, inoltre, abbiamo assistito allo sgombero di alcuni spazi e realtà sociali, anche storiche. Penso, per esempio, ad Atlantide che non ha più una collocazione fisica in città. In casi come questo c’è la mancanza di riconoscimento politico di un’esperienza che molti invece ritenevano importanti e rilevanti.

Al di là di spazi e realtà sociali che non hanno più una propria collocazione, ritenete che vi sia anche un problema di spazi abbandonati e inutilizzati?

Sì assolutamente, su questo tema non c’è visione, non c’è una strategia. Io al momento vivo in Germania e qua,sui luoghi da riconvertire in spazi culturali e sociali, anche temporanei, c’è un altro tipo di attenzione e anche di investimento. Bologna è piena di spazi vuoti che potrebbero essere utilizzati se solo ci fosse la volontà di renderlo possibile. Potrebbero diventare gallerie, auditorium, spazi multifunzionali e tanto altro.

Votando la città unicamente al cibo si rischia di avere poco spazio, poca energia e pochi fondi per il resto. Bologna sa e può esprimere molte altre professionalità al di là di quella del campo gastronomico. E’ una città che negli ultimi dieci anni ha spinto molto  l’acceleratore sull’arte contemporanea, è città patrimonio dell’UNESCO per la musica, abbiamo l’Università più antica d’Europa. E’ una città che ha tanto da dare, anche se le sue potenzialità non sono valorizzate nel modo giusto.

Cheap, sempre per citarvi, “parte dal basso”. La partecipazione dal basso pare essere una delle vostre caratteristiche principali. Sembra dimostrarlo anche la vostra “Call for Artist” aperta, in cui chiunque può inviarvi materiale da selezionare per partecipare al festival. Cosa significa fare cultura dal basso oggi? A Bologna, oggi, si fa cultura dal basso?

Io sono sempre un po’ in difficoltà quando si parla di “cultura dal basso” perché identificare un basso significa necessariamente dover identificare anche un alto. E questo tipo di geografia si dimostra spesso fallace. Preferiamo dire che CHEAP è un progetto attraversabile, un progetto aperto, per questo abbiamo scelto la forma dell’associazione. La Call for Artist abbiamo scelto di farla sin dal 2013 e continueremo a farla, nonostante la sospensione del festival c’è n’è una attiva anche adesso per il 2018 ( la call si chiama FRAMMENTO / UNITA’ – parte e tutto, goccia e marea, bit.ly/CALLforARTIST_CHEAP2018).

La Call si può dire che rappresenti il “core” di cheap, è uno sguardo sul graphic design, sull’illustrazione, sulla fotografia, sull’arte visiva, al di là della street art, uno sguardo che diventa narrazione collettiva  e che si sviluppa su un tema attraversando lo spazio pubblico, facendolo con il supporto più effimero a cui siamo riuscite a pensare: la carta.

A proposito di carta. Avete scelto la carta perché effimera, non permanente. Nel mondo digitalizzato, dove tutto è più volatile, che valore assume questo tipo di supporto? Cosa vi affascina di essa?

Chiariamoci, non abbiamo preclusioni rispetto alla digital art ma noi realizziamo esperienze partecipate e condivise, esperienze in cui è fondamentale essere lì, in quel momento, in quella strada, nello spazio pubblico. La fisicità è imprescindibile e,per quanto i nostri interventi siano temporanei e destinati a non lasciare traccia per sempre, quello che proponiamo  ha una forte natura materiale e fisica. Nel 2013, quando è nato Cheap, eravamo incuriosite dalla carta e dalla poster art anche perché, in quegli anni, non se ne vedeva tanta in giro, forse era più conosciuta a Roma o in altri contesti. Qui non c’era la saturazione attuale, non molti artisti si misuravano con questo mezzo e così ci siamo lanciate.

Continuiamo a parlare di voi. Il team di Cheap è composto da sei donne e un tema di vostro interesse sembra essere quello della disparità di genere. E’ così?

Più che la disparità di genere, direi proprio che una delle energie che attraversa CHEAP è il femminismo. L’8 Marzo di quest’anno, in occasione dello sciopero femminista, abbiamo fatto un intervento di attacchinaggio in Viale Masini, un intervento che si può definire assolutamente femminista, realizzato in collaborazione con l’artista MP5 e con la complicità di Non una Di Meno Bologna. Inoltre, in altre occasioni, abbiamo collaborato con le Guerrilla Girls, una formazione artistica e di attiviste femministe. Abbiamo anche fatto una campagna con il  MIT, Movimento Identità Trans, per supportare una delle loro battaglie principali, quella per l’ottenimento del cambio di sesso sul proprio documento di identità senza l’obbligo di ricorrere all’operazione chirurgica. Ancora, subito dopo la strage di Orlando, abbiamo lanciato la campagna “Shoot me”  (“Sparami”) con l’artista Gianluca Vassallo, in cui sui manifesti vi erano una serie di fotografie di coppie omosessuali che si baciavan. Direi che i temi del femminismo, di un femminismo     che è transfemminista, hanno sempre attraversato CHEAP in tutti questi anni.

Ci spieghi meglio: quale è il vostro modo di intendere e interpretare il femminismo?

Sì, partiamo però da un presupposto: noi non siamo un collettivo politico, non abbiamo scritto una manifesto della nostra idea di femminismo. Tuttavia, tenendo conto della nostra esperienza come CHEAP e rispettando le nostre diverse sensibilità personali, posso affermare che siamo chiaramente vicine ad un’idea di femminismo intersezionale.

Per concludere: voi vi occupate di arte e di cultura. Cosa pensate dell’ondata di censura politically correct che in Occidente, più in particolare nei paesi anglosassoni, ha invaso anche il vostro ambito?

Qui non posso che rispondere secondo la mia personale sensibilità, a questa domanda non posso rispondere per Cheap.

Certo, ci mancherebbe, non c’è problema, ci racconti.

Bene. Partiamo dal presupposto che la sola parola “censura” mi fa venire l’orticaria. Tuttavia ritengo fondamentale questa analisi: al di là del veicolo o dello strumento usato, dall’arte, a dei volantini, a un discorso tra amici, la libertà di espressione, a mio avviso, deve incontrare un limite quando diventa “discorso d’odio”.

Per quanto riguarda i paesi anglosassoni, per esempio, in cui c’è il concetto di “hate speech”, penso ci sia maggior cognizione di causa rispetto a quello che rimane dentro ai limiti  della libertà d’espressione e quello che li oltrepassa divenendo mero discorso d’odio. In questo senso noi abbiamo una legislazione debole, non c’è una legge speciale e specifica che riconosce “l’ hate speech” come reato. Per esempio, prendiamo il caso della Presidente della Camera emerita, Laura Boldrini, che è stata insultata in ogni modo e che è stata raffigurata con un pupazzo bruciato in piazza da un partito che  oggi si appresta a formare il nuovo governo (Lega Nord). Ecco, questo livello, questo scadimento, altrove non viene raggiunto perché ci sono delle leggi che vietano tali comportamenti. Bisogna stare attenti a parlare di censura in senso assoluto, bisogna contestualizzare per poter giudicare cosa è censura e cosa no.

Allora le faccio qualche esempio, così mi dice cosa ne pensa:

  • I romanzi di “Mark Twain” eliminati dai programmi di studio di diverse università americane perché ritenuti razzisti e schiavisti.
  • Il “Grande Gatsby” considerato un romanzo sessista e per questo messo all’indice.
  • Il quadro “Ila e le Ninfe” di John William Waterhouse (1896), anch’esso considerato sessista e per questo messo in cantina dalla Manchester Art Gallery, proprio come fece Stalin con molti dei quadri che abbiamo potuto vedere alla mostra “Revolutija” qua a Bologna, al MamBO.

Potrei andare avanti…

Le rispondo con una provocazione: tutti e tre gli autori sono uomini, spero che in questo modo venga dato spazio a tre donne.

Ultima domanda davvero. Ha citato Laura Boldrini, non mi interessa approfondire il personaggio, non è questa la sede. L’ex presidente della camera però ha parlato di abbattere l’Obelisco Mussolini a Roma, al Foro Italico. Che cosa pensa a riguardo?

Per rispondere mi rifaccio alla mia esperienza in Germania. Ora vivo qui, in un paese che, più del nostro, ha pagato per i propri errori. Qui sono state eliminate tutte le effigi naziste. La denazistificazione del paese non ha creato neppure dibattito. Il cambiamento è passato anche da questo.

Noi usiamo salutare i nostri ospiti chiedendogli di proporci un brano musicale, una canzone o una traccia da loro proposta. Lei come ci saluta?

Con un pezzo tratto dalla Miseducation of Lauryn Hill,  Everything is everything.


Close