Intervista al Presidente della fondazione Golinelli a cura di Francesco d’Errico
Fondata nel 1988 dall’imprenditore e filantropo Marino Golinelli, l’omonima Fondazione si è occupata fin dal suo primo giorno di formazione culturale per i giovani, spaziando, senza mai porsi limiti, dall’arte alla scienza. Tante le iniziative messe in campo nel corso degli anni, dalla “Scienza in Piazza”, che dal 2005 al 2014 ha trasformato la città in un laboratorio a cielo aperto, al “Giardino delle Imprese”, nato per valorizzare e promuovere la cultura imprenditoriale tra i giovani, fino alle più recenti costruzioni dell’ “Opificio Golinelli” e del “Centro di Arti e Scienze”, quest’ultimo inaugurato nell’Ottobre del 2017.
Dall’1 Aprile del 2016 è diventato Presidente della Fondazione Andrea Zanotti, Professore Ordinario di Diritto Canonico dell’Università di Bologna, che ha ricevuto il testimone dal fondatore e con cui abbiamo parlato della Fondazione, della situazione del settore cultura a Bologna, di come la città abbia nel suo dna un gene europeo non del tutto valorizzato e di molto altro.
Professore, lei non è originario di Bologna, si è avvicinato alla città grazie all’Università. Ci racconti come è venuto a contatto con la fondazione Golinelli.
Il mio rapporto con la Fondazione Golinelli esiste fin dalle sue origini. Neonata, nel 1988, la Fondazione cercava un Segretario e Marino Golinelli, per questa ricerca, si affidò all’allora rettore dell’Università di Bologna Fabio Roversi Monaco, il quale mi indicò all’imprenditore. Dunque, ho seguito la Fondazione fin dalla sua nascita, prima in qualità di Segretario, poi di Consigliere del Consiglio di Amministrazione, di Vice-Presidente fino a diventarne, da ultimo, Presidente.
Quali sono gli obiettivi della Fondazione? E quale il vostro modus operandi, il vostro approccio rispetto ai temi che affrontate nelle vostre attività?
Partiamo da lontano. La nostra società deriva da una concezione otto-novecentesca, da un’idea di società segmentata, polarizzata, caratterizzata da una forte specializzazione sociale, che prevede un luogo specifico per ogni cosa: il luogo dove si studia, il luogo dove si fa ricerca, il luogo dove si fa formazione, il luogo in cui si produce, e così via. Ora, dal punto di vista dell’innovazione, tutto questo ha garantito una certa funzionalità soltanto fino a quando l’accelerazione della storia è stata controllabile. Oggi, però, non lo è più.
Derivando da quel tipo di società, sulla via dell’innovazione, il tempo che si impiega ancora oggi, per studiare, ricercare, progettare, brevettare un prototipo e andare finalmente in produzione, è un tempo enorme, troppo lungo, fuori dalle dinamiche odierne. Il percorso dell’innovazione va accorciato: bisogna creare luoghi di contaminazione dove si pensa e si produce, fin dall’origine, insieme. La fondazione va in questa direzione.
Oggi non c’è più tempo di insegnare la teoria astratta e poi l’applicazione, bisogna farlo in un’unica unità di tempo e orientare, abbattendo le divisioni da cui proveniamo, il momento creativo già alla produzione.
Un luogo come questo non c’è in Italia, probabilmente neppure in Europa: quello di creare un luogo in cui abbattere le barriere appena descritte è un tentativo che noi vogliamo fare e che con la creazione dell’Opificio, stiamo già tentando di mettere in atto. Per esempio, l’idea di unire in un’unica sede una scuola di dottorato di big data, un centro arte e scienza, e anche un incubatore per giovani imprese, significa esattamente cercare di unire tra loro le diverse componenti di un processo che deve essere unico.
Un modello del genere non è interessante soltanto per Bologna: ma per tutto il territorio nazionale. Quando noi italiani riusciamo a unire funzionalità, l’intelligenza, bellezza – e dunque arte e scienza – facciamo cose straordinarie, cose che nessun altro al modo sa fare. In questo territorio, qui vicino a noi, a Modena, ne abbiamo un esempio importante: la Ferrari. La Ferrari non ha problemi di mercato perché fa cose che funzionano, veloci e belle. Quando noi italiani riusciamo a sintetizzare in un unico prodotto queste diverse caratteristiche, non dobbiamo temere ne la concorrenza del Giappone, ne della Cina o degli Stati Uniti.
Fondazione Golinelli si occupa da sempre di Scienza e di Arte, mondi che, a prima vista, sembrano essere molto distanti. Come coniugate fra loro queste due materie apparentemente lontane?
Il rapporto tra Scienza e Arte è un rapporto molto controverso che è venuto modificandosi nel tempo. Penso che all’origine ci fosse un rapporto di stretta colleganza tra le due, dato dal fatto che il meccanismo che porta al gesto artistico e quello che porta alla scoperta scientifica sono dello stesso segno. Operano entrambi nell’ordine della discontinuità, non c’è differenza, a livello di operazione mentale, tra l’idea che ha avuto Caravaggio per rappresentare la luce in un certo modo, l’intuizione di Lorenzetti per rendere la prospettiva nelle sue opere o quella newtoniana della mela che cascandogli in testa lo porta a interessarsi e e poi a scoprire la legge di gravità.
I processi mentali e i gesti dell’arte e della scienza sono simili sia dal punto di vista del loro farsi che del loro collocarsi. Questo nesso di colleganza si è spezzato quando fatto la scienza ha intrapreso sentieri di specializzazione, allontanandosi da questa matrice. Oggi, a dir la verità, bisognerebbe addirittura chiedersi se la scienza esista ancora o se esista solo la tecnica. L’arte è rimasta, tutto sommato, negletta e ai margini di questo ragionamento.
C’è una frase di Nieztsche sul rapporto tra Scienza e Arte che trovo molto convincente; ne “ La Gaia Scienza” il filosofo afferma che non è affatto vero che la scienza è progredita per via empirica, “labolatoriale”, essa piuttosto è progredita perché ha saputo immaginare dei mondi nei quali poi inscrivere utilmente risultati delle ricerche. E aggiunge ancora, che non è la scienza il luogo in cui l’uomo è processato eminentemente per metafore: questo luogo è l’arte. Da ciò deduce, con folgorante conseguenzialità, che l’arte è il luogo scientifico per eccellenza. Io sono perfettamente d’accordo.
Oggi viviamo un’epoca di cambiamenti repentini, in cui anche l’ultima novità rischia di divenire obsoleta dopo pochi secondi. Riprendendo il titolo di una mostra che avete ospitato nel vostro Centro Arti e Scienze, siamo davvero davanti a un futuro “Imprevedibile” al quale dobbiamo prepararci senza sapere come sarà. Lo sviluppo e la formazione culturale, soprattutto rivolti verso i più giovani, possono davvero darci gli strumenti idonei ad affrontare questo futuro?
Ci sono due modi per provare a decodificare il volto del futuro e noi, come Fondazione Golinelli, li abbiamo scelti entrambi. Il primo è legato all’evoluzione della statistica e alla scienza computazionale. Ormai, infatti, è convincimento comune che il tema dei big-data sia una chiave di lettura del futuro. Anche dati statistici, che presi singolarmente appaiono poco interessanti, infatti, quando vengono analizzati in grande quantità, diventano piattaforme di partenza indispensabili per chi determina le scelte economiche e produttive.
Il secondo, che non rispecchia l’aspetto artistotelico computazionale ma semmai l’aspetto platonico intuitivo e più profetico, consiste nel comprendere, non tramite un sistema deduttivo ma un sistema induttivo, le strade che prenderà il futuro. Qui entra in gioco il rapporto tra arte e scienza che noi esploriamo. Il futuro oggi è certamente imprevedibile, le velocità che si producono sono tali da non essere colte. Tuttavia, con entrambi gli approcci appena descritti, possiamo almeno provare, da un lato a immaginare il futuro e dall’altro ad approntare degli strumenti per cui l’imprevedibilità non ci trovi del tutto impreparati.
Quanto e come incide lo sviluppo della tecnologia e della tecnica sulla produzione culturale? Fondazione Golinelli, in ogni sua attività, pare affidare ad essa un ruolo di grande rilevanza alla tecnologia, dal progetto del “Giardino delle Imprese” pensato per giovani imprenditori o al progetto “Educare ad Educare”, rivolti a insegnati e docenti…
Bisogna prendere atto che forse i termini del problema oggi sono rovesciati. La tecnica non è più uno strumento che l’uomo piega ad un fine. E’ stato così fino alla conquista della luna, un tempo nel quale dall’ippogrifo di Ariosto fino alla luna di Leopardi, l’uomo sognava cosa c’era lassù e ha creato degli strumenti in grado di soddisfare questa curiosità, una curiosità che si poneva come un fine. Da lì in avanti la tecnica ha teso a porsi non come uno strumento ma essa stessa come il fine. Questo produce e fa sorgere una serie di problemi non banali perché si genera anomia, mancanza di significato. La tecnica per sua natura non è narrativa, non spiega a che cosa serve una certa funzione, ha un linguaggio kick off, che ti dice soltanto che cosa si può o non si può fare, non ti dice a che cosa è finalizzata. Il tema sui cui interrogarsi è questo: come può l’uomo adattarsi a vivere senza un significato? Per provare a rispondere non ci si può dimenticare che l’uomo prima di tutto è un animale simbolico ed ha una struttura simbolica.
Quando lei è arrivato Bologna, era al centro della produzione culturale, dalla politica, alla musica, passando per il fumetto e l’illustrazione. Oggi invece? Bologna è ancora una città creativa?
Innanzitutto bisogna prendere in analisi la Bologna delle origini. Bologna è fondamentalmente una città conservatrice. E’ la città della legazia pontificia e questo non dobbiamo dimenticarlo. Emblematica, in quella fine anni Settanta, l’ultima campagna elettorale del sindaco Zangheri che in Piazza Maggiore disse: “Bisogna votare perché Bologna rimanga com’è”; un affermazione che è un manifesto di conservatorismo puro. E’ un distillato di conservatorismo. Tuttavia, Bologna ha, nel suo patrimonio storico, un grande gene, straordinario, che è l’Università. L’Università è il vero enzima metropolitano, enzima di cambiamento che questa città ha sempre posseduto e possiede tutt’ora. Il rapporto tra studenti e popolazione è virtuosamente, da sempre, di 1 a 4. Sin dal suo nascere, l’Università garantisce una piattaforma internazionale alla città. Bologna si nutre di questo e conosce le sue stagioni migliori quando questa linfa viene liberata, checchè ne pensino i bolognesi.
Questo è uno di quei periodi?
No, perché a Bologna da questo punto vista, pensando anche solo al ’76-’77, in cui l’epicentro era, nel bene e nel male, nel movimento studentesco, c’era comunque un fermento diverso. In quel movimento c’erano comunque diversi aspetti interessanti, ma anche gli anni successivi hanno contribuito a riportare Bologna al centro della vita sociale, intellettuale, politica. La celebrazione del IX Centenario dell’Università nel 1988, è stato un momento di propulsione straordinario. In quel periodo ho visto la città diventare punto di riferimento europeo, forse mondiale, per il dibattito sull’alta formazione. Quella spinta contribuì per esempio a portare un bolognese, Prodi, al governo: e in quel governo diversi ministri erano professori del nostro ateneo. Negli anni successivi si è assistito ad un declino: l’asse portante si è spostato tra Milano e Roma. Bologna, per quanto rilevante, oggi, non è più, l’epicentro del dibattito culturale. Per tornare ad esserlo deve liberare nuovamente le forze che girano intorno al flusso dell’ambiente universitario.
Proprio tenendo conto della presenza dell’Università, Bologna, al di là dei suoi aspetti più provinciali, può aspirare a diventare davvero una “città europea”? Da ultimo ciò è fonte di un intenso dibattito…
Bologna ha nel suo dna una vocazione europea. Se si pensa al XII e XIII secolo, le grandi capitali europee erano due: Parigi per lo studio teologico e Bologna che era la patria del diritto. I due fari della cultura europea erano Bologna e Parigi. In questo passato è inscritta la caratura europea della città, un’anima che risale come un fiume carsico in superficie a seconda delle epoche storiche. La vocazione europea è inscritta nella sua storia.
Vista da fuori, tuttavia, da un non bolognese di nascita, a Bologna manca un pizzico di umiltà. Bologna tende a compiacersi molto di sé, della piacevolezza della sua vita e di ciò che si svolge dentro le mura. Da questo punto di vista dovrebbe avere più fame. Certo, ci sono aree strategiche che sono cresciute negli anni, dall’aereoporto alla fiera, a un sistema urbano che si è evoluto in metropoli urbana e a cui non mancherebbe nulla per farne una capitale europea. Però servirebbero meno presunzione e più convinzione.
E poi io un’idea su questo tema l’avrei, posso suggerirla?
Certo, prego.
Bologna, in Europa in disfacimento, ha davanti a sé una possibilità. Guardando bene l’Europa, vediamo un tessuto fatta di città medio-piccole, ognuna con un proprio principio di individuazione molto forte. Il contesto europeo è formato da questo insieme straordinario di diversità cittadine. In questo momento abbiamo un’Europa che non ha una dimensione politica e questa dimensione non può che essere costituita da un movimento che debba vedere le città come protagoniste, un movimento che potrebbe portare all’elaborazione di una Carta Costituzionale Europea. Gli unici legittimati a scrivere una carta del genere oggi probabilmente sono proprio i sindaci, perché i più vicini alla gente, in quanto ultimo anello di articolazione della società civile.
Se Bologna, che per prima nella storia, nel 1200, con il Liber Paradisus, ha abolito la schiavitù e ospita la più antica facoltà di diritto d’Europa, si proponesse come promotrice di questo movimento, con l’obiettivo porlo all’attenzione di questo continente così vecchio e malandato, penso che potrebbe aprirsi un’importante percorso per riportare Bologna– partendo dalle città gemellate e più vicine nell’amicizia – a quel primato europeo che una volta aveva e che adesso non ha più.
In qualità di Professore, lei vive la zona Universitaria quotidianamente. Si è mai interrogato su possibili soluzioni per il tanto discusso disagio della zona Universitaria? Che idea si è fatto su questo argomento?
Non servono scienziati per individuare e decodificare il disagio della zona universitaria, segnatamente quello di Piazza Verdi e di Via Petroni. Penso che sia passato un patto sociale scellerato, per il quale ogni comunità tende a scaricare i propri punti di criticità su un luogo, battezzandolo come nave dei folli, dove è possibile tutto e il contrario di tutto. In questo senso, non si è fatto nulla di serio negli ultimi anni per cercare di rendere l’asse tra Piazza Verdi e Via Petroni un luogo di città aperto e vivibile. Si è deciso di considerarla una zona franca, dove frange studentesche e frange di sottoproletariato possono avere un luogo di libera frequentazione non controllato e non inserito nel contesto urbano. Credo che questo degrado sia intollerabile e penso che non sia una questione di cui si debba fare carico l’Università, sarebbe troppo facile ogni volta scaricare il degrado sul Rettore di turno.
Andrebbe organizzata, al contrario, un’operazione concertale tra Ateneo, Comune, Prefetto, Forze dell’Ordine che devono agire di concerto. In questo senso l’indicazione di una politica urbanistica che formi un tessuto connettivo credibile sarebbe importante per la città.
E la presenza nella zona di eventi culturali o artistici potrebbe migliorare la situazione?
Certo potrebbero essere utili. Tra l’altro è inevitabile che nei luoghi dove vi è incontro di giovani, di generazioni studentesche, cioè di ragazzi che vanno dai 18 ai 25-26 anni, vi sia dell’allegra confusione.
Chi viene a studiare da fuori e compone quella linfa importantissima di cui parlavo prima, viene a Bologna per un’esperienza di vita complessiva dove è impossibile distinguere tra studio, frequenza a lezione, divertimento, musica e altro. La vita è un continuum di cose. Questo di per sé può rendere Bologna estremamente interessante. Ma renderla interessante e renderla degradata sono due cose molto diverse.
Un’ultima domanda, prima di concludere, che rivolgiamo più al Professore di Diritto Canonico che al Presidente della Fondazione Golinelli, per analizzare un fenomeno che da ultimo caratterizza il mondo dell’arte nel mondo occidentale: la censura del politically correct. Gli esempi in questo senso si sprecano, uno dei casi più evidenti è quello della Manchester Art Gallery dove il quadro “Ila e le Ninfe”di John William Waterhouse, (1896), è stato nascosto al pubblico perché ritenuto sessista (il quadro rappresenta delle ninfe nude che tentano un giovane uomo nudo). Lei cosa pensa di questo fenomeno da studioso?
Io sono per il politically uncorrect.
Penso che viviamo un periodo di stupidità da questo punto di vista e, soprattutto, penso che la teoria dei diritti soggettivi non possa essere piegata fino alla sua perversione secondo la quale, ogni desiderio al mondo, debba essere riconosciuto e difeso dagli ordinamenti giuridici. Questa io la trovo una barbarie. Così come trovo ridicola, per esempio, l’esasperazione di tutte le questioni di gender che nella loro proiezione parossistica, tendono ad essere più puritane dei puritani. Ma più puritano del puritano c’è solo il ridicolo.
Noi usiamo salutare i nostri ospiti chiedendogli di proporci un brano musicale, una canzone o una traccia da loro proposta. Lei come ci saluta?
Scelgo le prime cose che suonavo con la chitarra. Da una parte “Blowing in the wind” di Bob Dylan e dall’altra “Il Suonatore Jones” di De Andrè. Due canzoni in cui ci sono due cose molto importanti: la polvere e il vento.
Essere cercatori di vento è una buona cosa.