Nato a Bologna il 2 marzo 1952, Mauro Felicori, è stato per gran parte della sua carriera professionale dirigente del Comune di Bologna nel settore della cultura. Primo laureato della sua famiglia, “come Guccini”, dall’ottobre 2015 è direttore generale della Reggia di Caserta, dove ha messo in atto una vera e propria “rivoluzione culturale” sostenuta dai numeri e condivisa da molti ma anche messa discussione da diversi critici. Con il Direttore abbiamo parlato dell’attuale situazione del turismo in Italia, della Riforma Franceschini, della sua e nostra Bologna e persino di Bob Dylan e Stockhausen. Una lunga chiacchierata per capire come sia possibile e perché sia importante rendere i beni culturali economicamente produttivi e per scongiurare la fobia dell’intervento privato nel mondo della cultura.
Direttore, quanto è ancora vero il principio Tremontiano per cui “di cultura non si mangia” ? E’ possibile rendere produttivo un bene culturale?
Rendere un bene culturale produttivo è assolutamente possibile e tutta l’esperienza della riforma Franceschini lo dimostra. La premessa per poter far sì che i beni culturali producano ricchezza è ideologica e la abbiamo vista nel dibattito sulla riforma Franceschini. Ci sono due diverse posizioni che si fronteggiano duramente. La prima, è quella contraria alla riforma Franceschini, quella dei Settis e dei Montanari, che vede la cultura come un costo, un costo nobile ma pur sempre tale, da caricare sulla finanza pubblica; in questa visione lo sviluppo e la gestione dei beni culturali comportano di necessità l’aumento della spesa pubblica. Ora, questa posizione, che io avverso, oltre che essere sbagliata in linea di principio, oggi è irrealistica perché se è vero che è sempre auspicabile che lo Stato spenda di più per la cultura è pur vero che sarebbe anche auspicabile che spendesse di più anche per sanità, istruzione, ricerca, università, sicurezza, difesa, per sostenere i poveri…la cultura per loro è essenzialmente un costo a carico del pubblico, un costo nobile naturalmente, un altare a cui il popolo deve fare i riti sacrificali, ma gli agnelli sono finiti.
E qual è la seconda visione?
Nella visione alternativa i beni culturali sono potenzialmente produttori di ricchezza, di lavoro, di sviluppo, economicamente più autonomi e meno pesanti per la finanza pubblica. Per fare l’esempio della Reggia di Caserta, che forse piaceva di più ai Settis e ai Montanari prima della riforma, cioè quando era scesa a 430.000 visitatori l’anno mentre Versailles ne fa 5,3 l’anno (cioè 12 volte tanto), aver aumentato il numero degli ingressi e quindi delle entrate, con l’importante novità della riforma per cui i soldi degli ingressi restano a noi, significa anche poter aumentare gli investimenti per ricerca, manutenzione, pulizia, restauri. Resta comunque, ovviamente, una quota importante dello stato, che non deve affatto ritirarsi dai beni culturali. Ad esempio oggi lo stato paga 9 milioni di stipendi, il governo ha investito 67 milioni di manutenzione, anche noi quindi siamo fortemente finanziati, è vero ed è giusto. Ma se anche noi facessimo la nostra parte, come abbiamo già iniziato a fare, ci sarebbero nuove risorse disponibili per nuovi traguardi, se facessi ingressi quanti ne fa Versailles potremmo occuparci anche di San Leucio, Casertavecchia, dell’Anfiteatro campano, del Museo di Capua… potremmo davvero fare sì che i cosiddetti grandi attrattori facciano da capofila di un sistema museale più complesso, largo e ricco.
Vi dirò di più, la speranza per la prossima legislatura è che i dirigenti dei musei possano anche gestire il personale. Al momento la gestione del personale è dello stato, chi lavora alla Reggia lavora con me ma non dipende da me. Ad esempio non posso assumere, e invece se potessi farlo sono con i soldi guadagnati in più in questi due anni, potrei assumere domani 30 persone. Domani. I beni culturali sono un caso evidente di spreco, di un paese che spreca un bene straordinario non solo esteticamente e storicamente ma anche economicamente. La situazione è esattamente opposta a quella descritta nella frase di Tremonti (che comunque l’ha sempre smentita). I paesi che vogliono crescere puntano sulla cultura per farlo. Non c’è sviluppo economico senza sviluppo culturale.
A proposito dei critici della riforma Franceschini, Tomaso Montanari oltre a criticare la riforma la ha aspramente critica per la sua gestione della Reggia…
Montanari fa molta falsificazione commentando la Reggia da lontano. Purtroppo come spesso oggi avviene anche nella polemica politica si falsifica la realtà. Questa idea della Reggia trasformata in un supermarket o in un Luna Park dopo il mio arrivo è totalmente infondata, anzi, semmai, è l’opposto. Io vieto cose che prima venivano fatte.
Per esempio?
Il famoso “effetto cannocchiale” pensato da Vanvitelli (progettista della Reggia), che permette una vista formidabile per cui si può ammirare tutto il palazzo e poi oltre fino alle fontane e all’Appennino, prima del mio arrivo fu oscurato per un concerto di Bocelli. La famosa vista offriva il backstage di Bocelli per dieci giorni. Sempre i sacerdoti della tutela hanno anche fatto alla Reggia un concerto di Gianni Morandi. Da bolognese a Morandi si vuole bene ma io non l’avrei mai autorizzato. Vede, in un mondo normale si confrontano le idee, non è necessario attaccare sul personale o basandosi su falsi dati chi è in disaccordo con noi. Purtroppo avviene così, è un generale problema di buona educazione che è ormai sempre più calante. Nel mio lavoro faccio tanti errori che non ci sarebbe bisogno di inventarne.
L’anno appena terminato è stato un anno di record per il turismo in Italia. Il 2017 ha visto oltre 420 milioni di presenze. I più maliziosi sostengono che questo risultato sia figlio soltanto degli attentati terroristici che hanno allontanato parte dei turisti dalle grandi metropoli europee. Quanto c’è di vero?
La componente del terrorismo è pressoché irrilevante. Il discorso è un altro: in questo momento ci sono miliardi di esseri umani che hanno risolto il problema della fame e iniziano ad avere i soldi per permettersi una vacanza. Un esempio sono i cinesi; quando io ero giovane i cinesi non mangiavano, adesso crescono come popolo e hanno i soldi e la libertà, che non c’era, per uscire dalla Cina. Per questo ora nel mondo il turismo cresce autonomamente, senza che nessuno faccia nulla. Da questo fenomeno l’Italia, che è storicamente la meta più ambita, chiedetelo a chiunque in qualunque parte del mondo, trae enorme vantaggio e ne beneficia. Il problema è un altro.
Quale?
I turisti li trattiamo spesso male. I trasporti funzionano male, i servizi carenti, spesso c’è poca professionalità, ci sono ancora ristoranti che taglieggiano i turisti, c’è percezione di caos e di insicurezza: queste sono immagini negative. Il risultato è che in Italia il turista tende a non tornare, purtroppo. L’Italia è una meta ineludibile però ci sono queste problematiche da risolvere se vogliamo che il turista desideri ripetere l’esperienza. Spesso i posti più desiderati sono anche i peggio organizzati. La crescita è sotto gli occhi di tutti ma va gestita molto meglio.
Parliamo di Bologna. La città ha qualche speranza di fare il salto di qualità, di trasformarsi e da “metropoli di provincia” diventare “città europea”? O è destinata a rimanere immobile come dichiarò ad agosto?
Bologna deve scegliere. Da qualche decennio non sceglie se rimanere un bel paesone di qualità, dove si sta bene, dove c’è industria forte e ricca ma la città resta sostanzialmente un grande paese o se immaginarsi come metropoli e fare investimenti metropolitani. Su questo, e lo dico senza intenti critici, c’è grande incertezza. Siamo quelli che fanno la stazione AV e invece di mettere almeno l’autobus in via Carracci mettono la pista ciclabile. Facciamo FICO e lo colleghiamo con bus e piste ciclabili. Ma un turista che vuole andare da FICO non ci andrà mai in bicicletta. Il bolognese potrà andarci in bici ma FICO deve attrarre gente da tutta Europa…
C’è un problema infrastrutturale: a Bologna non c’è un sistema di trasporto su ferro e nessuno lo sta neanche progettando, non ci si sta neanche pensando. Il dibattito su metropolitana e tram si è risolto nel non fare ne l’uno ne l’altra. Insomma, Bologna deve scegliere la propria taglia. E’ una questione che esiste da quarant’anni e non riguarda le ultime amministrazioni, è un problema più ampio, di visione generale, da anni.
Bologna è sempre più “la Grassa” e sempre più sempre più riferimento per il settore enogastronomico in tutto il mondo, sopratutto dopo l’apertura di Fico. L’essere diventata “capitale mondiale del cibo”, che effetti ha? Vede dei possibili vantaggi al di là di quelli economici?
Quando le persone circolano è sempre positivo, quando giro per Bologna vedo tanti turisti e mi fa piacere. E’ stato fatto un ottimo lavoro sul turismo ma forse il successo ha un po’ preso la mano alla città. Si iniziano a porre problemi di sostenibilità per il turismo in generale e non solo per il mondo del cibo. Ce lo possiamo permettere: Bologna non ha bisogno del turismo, non è una sua necessità economica, è una sua vocazione, lo fa per scelta. Bologna ha scelto di essere una città turistica. Se però si vuole che questo turismo mantenga nel tempo la sua qualità bisogna porsi problemi di sostenibilità. A Bologna comincia a esserci un problema di migliore distribuzione sul territorio, è il momento di iniziare a proporre ai turisti una Bologna più grande di quella che gli viene offerta oggi.
E l’università? Quello della zona universitaria rimane un tema centrale.
Anche per l’Università a suo tempo era necessario porsi problemi di sostenibilità, il suo successo non è stato gestito. E bisogna evitare col turismo di commettere lo stesso errore. Detto ciò, non si possono osservare solo gli effetti patologici della concentrazione universitaria nel centro storico. Questa concentrazione ha anche permesso, per esempio, di restaurare e salvare palazzi formidabili che nessun privato sarebbe stato in grado di restaurare da solo. Via Zamboni è un problema oggi, però dalle due Torri a porta Zamboni, la via è completamente sistemata, restaurata, non c’è un metro quadrato vuoto quando, invece in tanti centri storici italiani i palazzi nobiliari sono spesso palazzi abbandonati. E’ necessario un giudizio equilibrato sulle cose. Soprattutto in quest’Italia dove tutti urlano.
Nel marzo 2016 ha dichiarato che la decisione dell’allora sindaco Guazzaloca di affidarle la gestione del cimitero della Certosa fu un “esilio professionale”. Da questo esilio però è nata l’Associazione europea dei cimiteri ed è anche stato premiato dai reali di Svezia. Il suo interesse per questi luoghi lo aveva anche prima?
Sì, erano anni che raccomandavo al settore cultura di Bologna di occuparsi della Certosa. Io la considero uno dei tre più importanti monumenti di Bologna ma nessuno se ne era mai occupato. La scultura dell’800 e del ‘900 è nei cimiteri, è lì che bisogna andare per scoprirla. E sono molto importanti anche per l’architettura, un esempio è il cimitero di Aldo Rossi a Modena ma ce ne sono tanti altri. Per tornare a quell’esperienza diciamo che per fortuna e purtroppo ho avuto modo di fare io quello che raccomandavo. Comunque Cofferati non fu da meno e mi lasciò in esilio ancora un paio di anni, sempre per il bene del nostro cimitero.
Prima di concludere torniamo a una domanda di largo respiro. Cosa pensa del fenomeno, ora così in voga, delle cosiddette experience? Molti le criticano e voi alla Reggia avete ospitato la Klimt Experience…
Sono esperienze ottime, benchè ovviamente l’aura dell’opera nella sua autenticità non sia sostituibile, danno modo di provare un’ esperienza diversa dell’opera. Certo, ci sono critiche, il mondo della cultura è pieno di reazionari, benché tutti si considerino di sinistra o di estrema sinistra ci sono tanti reazionari. E anche piuttosto ipocriti. Un esempio: chiunque guardi un catalogo d’arte, di quelli fatti sempre dai vari “sacerdoti” della purezza, nota come ci sia sempre stato un largo uso, anche nei manifesti delle mostre, dei particolare delle opere, opportunamente ingranditi.
Ma queste mostre digitali hanno tra le proprie strategie comunicative di grande fascino proprio la possibilità dell’ingrandimento, di farti vedere un particolare dettagliatamente o di presentare la stessa opera d’arte a grandi dimensioni. Noi Klimt lo abbiamo fatto nei nostri saloni alti dieci metri per esempio. Le experience usano dunque le nuove tecnologie per spiegare meglio, ed emozionare. Usate seriamente, con veri fini educativi, ma senza pedanterie, per me saranno sempre più importanti, anche nella stessa gestione delle sale museali. Poi si pensi a un artista come Bosch per esempio. Io ad un experience su Bosch starei dentro una settimana, quando lo vedi dal vivo ha una quantità di dettagli che è difficile apprezzare, ci vorrebbero tre quattro ore a quadro, qualcosa di infattibile che invece con l’experience risulta semplice e interessante. Detto ciò l’esperienza della narrativa digitale non esclude l’esperienza dell’opera nella sua autenticità, esperienza che io comunque raccomando. L’una non esclude l’altra. Mi sento di fare una sola raccomandazione sulle experience…
Mi dica.
Sono esperienze che dovrebbero essere organizzate da imprese private. Non spenderei dei soldi pubblici per queste iniziative, che hanno una loro efficacia commerciale. Lo Stato non deve entrare dove le imprese private possono fare bene o anche benissimo. Parlando della Klimt experience, la Reggia non ha messo un euro, anzi ha percepito anche un piccolo affitto da chi la organizzava. Dunque, nessuna avversione dunque per questo fenomeno, che mi piace. Ma non metterei dei soldi della Reggia. Abbiamo altre priorità. Del resto non si può accettare il punto di vista reazionario di una certa sinistra per cui le cose che fanno i privati sono sempre peggiori di quelle pubbliche. Attendo sempre che qualcuno mi dimostri che Bob Dylan è meno importante di Stockhausen. La differenza è che il secondo è costato un sacco di soldi pubblici (spesi bene, certo, è uno dei miei miti), Dylan (un altro dei miei) ne ha fatti guadagnare.
A proposito di musica, noi usiamo salutare i nostri ospiti chiedendogli di proporci un brano musicale, una canzone o una traccia da loro proposta. Lei come ci saluta?
Direi con In My Life dei Beatles, dall’album Rubber Soul. Perché forse è il primo LP che io ricordi che ho ascoltato non in radio ma sul giradischi col pick up. E poi sempre tra i primissimi che ascoltai c’è anche Sunny afternoon dei Kinks. Direi che due bastano vero?
Francesco d’Errico
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BOLOGNA, 40100 VEZ.