Ho smesso di essere idealista tanti anni fa, forse troppi avendo appena 28 anni. Ho smesso di essere idealista quando mi veniva insegnato di non lasciare i calzini spaiati prima di fare un lavaggio con la lavatrice. Ci fosse una volta in cui ho fatto questo passaggio giusto negli ultimi 10 anni. Ho smesso di essere idealista perché sono anche bombardato da input ovunque e la mia capacità di concentrazione – mai stata eccelsa – è andata lentamente a sgretolarsi. Ho smesso di essere idealista perché non credo a nulla, sono figlio perfetto e mediocre della mia filter bubble, ho un castello con tante attività e sono soddisfatto così. Ho smesso di essere idealista e questo va bene perché il problema è quando smetti di essere. Lì ci sarebbe bisogno di aiuto, ma non è forse questa la società giusta, anzi.
Una volta ho letto uno di quegli articoli generazionali, non ricordo esattamente su quale sito autorevole che ha fatto un buon lavoro di SEO, che spiegava come il massimo delle mie capacità celebrali dovrei ottenerle proprio ora, dai 25 ai 30 anni, poi proprio come la carriera di un calciatore, inizierà una fase di “tenuta” e infine un processo di deterioramento. Tutto sotto controllo, normale, anche se a differenza di un calciatore, purtroppo con il cervello devo camparci altri 40 anni. Non so esattamente cosa mi abbia spaventato di questo concetto scritto da un blogger pseudo studioso, però ogni tanto ci penso e moralmente mi abbatto. Ma non è l’unica volta che accade, succede spesso, guardando soprattutto quello che faccio durante le mie giornate da libero professionista, tra responsabilità e scadenze, in un mondo, come quello della creatività (che schifo scrivere sto termine) che vive di tremenda meritocrazia. Il bravo è ok, il finto bravo pure, il resto si perde nel mare di persone a cui manca qualcosa. Insomma un sistema bulimico che unito al tempo in cui bisogna muoversi non può farti vivere tranquillo, non tanto per il futuro dei nostri figli (che non avremo) ma per il domani ore 10.00 della mattina davanti allo smartphone. Julian Barnes, che ha scritto tanti libri in grado di renderti il presente una merda ma il futuro tutto sommato ok, nel suo celebre “Il rumore del tempo” racconta la vita del compositore Dmitrij Dmitrievič Šostakovič e il suo equilibrio precario all’interno del Regime Sovietico. Quello che emerge perfettamente è che per quanto tu faccia una cosa, nel modo giusto, nel contesto giusto, potrebbe esserci qualcosa che non suona come dovrebbe. E quindi sì, le cose vanno bene, sono felice, lavoro e non posso lamentarmi della mia libertà. Eppure proprio a far partire la lavatrice con i calzini accoppiati non ci riesco, piuttosto morirò nel letto a enfatizzare il mio malessere invece di perdere quei 10 minuti per ottenere qualcosa di più pratico una volta finito il lavaggio. Insomma ho smesso di essere idealista e forse questa cosa condivisa da molti è normale, però spero mi resti quel tanto che basta per continuare a essere, altrimenti in questa giungla non sarà solo la meritocrazia a farmi ritirare, ma pure la lavatrice a inghiottirmi.
Un’anima può essere distrutta in uno dei seguenti tre modi: attraverso ciò che ti fanno gli altri; attraverso ciò che gli altri ti costringono a fare a te stesso; e attraverso ciò che tu stesso decidi di farti. Ognuno di questi metodi è di per se sufficiente; certo in presenza di tutti e tre, il risultato è impareggiabile. Il rumore del tempo, Julian Barnes