Intervista a Federico Mutti, Presidente del Bologna Jazz Festival a cura di Francesco d’Errico
Federico Mutti nasce a Bologna nel 1979 e lavora nel mondo del cinema da quando ha vent’anni. Dal 2012, dopo l’inaspettata morte del padre Massimo Mutti, che nel 2002 resuscitò la kermesse da una pausa forzata iniziata nel 1975*, è diventato all’improvviso, Presidente del Bologna Jazz Festival riuscendo, nonostante le difficoltà iniziali, a gestire e portare avanti la rassegna con grande personalità e autorevolezza. Sotto la sua presidenza infatti, grazie anche alla lungimirante direzione artistica di Francesco Bettini, ha rinnovato profondamente il Festival, favorendo il dialogo tra jazz e altri generi musicali e dando spazio a esibizioni e performance caratterizzate da un linguaggio e un approccio aperto e contemporaneo.
Con lui abbiamo cercato di capire che cosa significhi organizzare un festival di musica internazionale, quali responsabilità abbiano le imprese culturali e quali sono, o quali dovrebbero essere, i rapporti tra esse e le istituzioni. Spaziando dal jazz al mondo dell’industria cinematografica, col fine di provare a delineare le mosse che Bologna deve compiere per trasformarsi davvero in una città internazionale, abbiamo parlato anche di turismo sostenibile, di città metropolitana e di quanto sia importante fare network tra le diverse realtà locali del settore cultura.
*Tra il 1975 e il 2002 ci sono state solo alcune sporadiche edizioni.
Suo padre nel 2006 rifondò il Festival che era fermo dal 1975. Nel 2012, dopo la sua scomparsa, Lei lo ha sostituito. Che cosa significa per Le, oggi, ricoprire questo ruolo?
Beh, è una bella domanda. Non tutti se la pongono perché danno per scontata la mia successione, la vedono come qualcosa di meccanico, come se si trattasse di un’eredità. Per rispondere bisogna partire dal presupposto che io ho sempre avuto, e ho tutt’ora, un altro lavoro al di là del festival. Lavoro nel mondo del cinema da quando ho vent’anni, un lavoro che mi ha sempre preso e appassionato molto e che fino a poco tempo fa è stata la mia attività principale; oggi sono esattamente diviso a metà tra questa attività e la gestione del festival. Chiaramente, con il BJF ho sempre avuto un rapporto di vicinanza ma non mi aveva mai coinvolto a livello professionale.
Non mi interessava entrare dentro all’organizzazione per fare il figlio di Massimo, la macchina funzionava molto bene, io non ero necessario all’interno dello staff , l’organizzazione era già ben strutturata e non mi sarei potuto rendere utile. Dico tutto questo proprio per sottolineare che non mi sarei mai aspettato di diventarne, un giorno, il presidente e che in questo non c’è stato nulla di automatico.
Ci spieghi dunque com’è andata..
E’ andata così: mio padre, ha iniziato ad avere problemi di salute e ,nell’ultimo periodo della sua vita, essendo una persona riservata, ha sentito il desiderio di proteggersi, di avere un filtro tra sé e il mondo esterno: quel filtro sono stato io. Così iniziai ad affiancarlo nei rapporti con le Istituzioni, con l’Assessore alla cultura e a interfacciarmi con tutto lo staff della nostra organizzazione, fino a quando, purtroppo, a un mese e mezzo dal festival, mio padre ci ha lasciati, morendo in tre giorni, in maniera del tutto inaspettata, almeno per me che, fino a poco prima che se ne andasse, gli portavo i contratti da firmare e gli leggevo le mail.
Per lui il festival era tutto e senza di lui, in effetti in quel momento, correva il serio rischio di morire, anche l’associazione stessa, che era composta da tre persone, per motivi legali non sarebbe più esistita dopo il suo decesso.
E a quel punto cosa è successo?
A quel punto, nel delirio dei preparativi del funerale, un giorno, a pranzo, mentre mi chiedevo come avremmo fatto a portare avanti tutto, la mia compagna di allora mi convinse che dovevo essere io a prendere in mano le redini della situazione e sostituire mio padre. Sul momento le dissi che era matta ma poi, visto che sarebbe stato più complicato disdire tutti i contratti piuttosto che onorarli, e che tutto lo staff aveva lavorato duro, mi dissi che sarebbe stato uno spreco rinunciare, sarebbe stato soprattutto uno sfregio nei confronti della città.
Decisi di convocare tutto lo staff, rifondammo l’associazione e accettai la responsabilità di fare il Presidente. Per rispondere davvero alla sua domanda di prima le dico: da un lato mi sento davvero onorato, davanti alla perdita di mio padre che se n’è andato a 54 anni, e tutto avrei pensato tranne che morisse così giovane, il Festival è stato per me uno strumento di crescita, uno strumento che io ho sfruttato per fare fronte a una situazione drammatica, per affrontare un momento di grande difficoltà come può essere la morte di un padre. Dall’altro è stato tutto molto pesante, per anni si è continuato a fare confronti con lui, a dire che bisognava fare le cose “come diceva Massimo”, e in quel momento ogni conferenza stampa mi sembrava un esame dell’Università da superare. Ormai però è la settima edizione che mi trovo a organizzare e da quando ho iniziato a capire che nel Festival c’era anche del mio, che con il mio lavoro e quello dei miei collaboratori lo stavo trasformando, ho iniziato a vivere le cose in maniera più leggera, e ho iniziato a vedere tutto diversamente.
Sopravvivere ai propri genitori è anche questo. Si muore e si rinasce, proprio come il Bologna Jazz Festival che pare essere immortale, viste le sue vicissitudini storiche.
Il Jazz è, fin dalla sua nascita, un genere predisposto alla sperimentazione, al superamento dei confini e degli schemi predefiniti. L’ultima edizione, quella del 2017, si è proposta come un’edizione attenta alla tradizione ma proiettata verso nuovi linguaggi. Per rimanere attuale il jazz deve misurarsi con l’elettronica e con l’hip hop? Che rapporto ha il BJF con il tema dell’innovazione?
L’Hip Hop è una rielaborazione di tutto il repertorio “black” che lo ha preceduto, dal soul, al funk, al blues, al jazz stesso, con il quale, peraltro, condivide l’improvvisazione: dopo il jazz, il primo genere che ha coltivato l’improvvisazione è stato proprio l’hip hop, tramite la disciplina del freestyle. L’hip hop e il jazz, pur partendo ,forse, da presupposti distanti, hanno molto in comune ed è dunque naturale per noi cercare una connessione con esso, proiettarsi verso questo genere.
Noi cerchiamo di offrire ai ragazzi un chiave d’accesso al jazz più contemporanea, il jazz è uno dei generi più trasversali di tutti e ci concede di spaziare da un pubblico che normalmente ascolta la musica classica a quello che invece ascolterebbe di solito musica rock. Per quanto riguarda l’elettronica, invece, l’anno scorso, tra i vari artisti, abbiamo ospitato in concerto il progetto di Enrico Rava, Matthew Herbert e Giovanni Guidi, un concerto difficile, un tipo di performance alla quale il nostro pubblico “tradizionale” non è ancora del tutto abituato. E’ importante fornire queste nuovi chiavi di lettura, sia per coinvolgere i giovani che per aprire nuovi percorsi e nuove esperienze al nostro pubblico tradizionale.
Sempre nell’ultima edizione avete proposto diverse iniziative multidisciplinari e didattiche, tra cui, per esempio un progetto dedicato all’integrazione sociale e professionale dei musicisti migranti e rifugiati. Quanto è importante per voi che il festival, al di là della proposta artistica in senso stretto, offra alla comunità attività di questo tipo?
Da quando ho intrapreso la mia esperienza come Presidente, ho fortemente voluto che il Festival partecipasse ai bandi nazionali ed europei. All’inizio non tutta l’organizzazione ha condiviso questa idea ma, alla fine, la mia linea ha avuto la meglio. Tra i vari bandi a cui abbiamo partecipato c’è appunto quello che lei citava, il bando Refugees, un bando internazionale dedicato ai rifugiati musicisti, a chi è dovuto scappare dal proprio paese e che, magari, da musicista è dovuto diventare, per forza di cose, raccoglitore di pomodori o lavavetri. E’ un progetto che vede coinvolte anche altre realtà e altre città, Sevilla, Gent, Berlino,Roma e per il quale abbiamo fatto una ricerca per individuare dei musicisti di qualità tra i rifugiati, dei musicisti che potessero creare un progetto musicale.
Siamo partiti prima con degli “house concert”, poi con delle jam un po’ più strutturate nei locali e siamo arrivati a proporre uno “spettacolo finale” che presentermo anche quest’anno (il progetto è biennale) e che vedrà, tra l’altro, anche la partecipazione di Roy Paci. E’ un progetto nel quale crediamo molto, è un modo per dare uno spazio a chi nella vita non ne ha avuto. In conclusione, crediamo che sia importante offrire anche attività didattiche e di formazione per un festival, non ci si può fermare alla proposta musicale. Adesso siamo entrati anche nelle scuole con diversi progetti, al Liceo Musicale Lucio Dalla ma anche al Liceo Artistico per esempio.
Quello tra Bologna e il Jazz Festival è un rapporto che nasce da lontano e che dura fin dal primo dopo guerra. Il jazz che influenza ha avuto e ha sulla città di Bologna? In che modo può averla cambiata?
Il jazz è una delle più grandi rivoluzioni musicali del ‘900 e per quanto punk rock siano stati due generi di grandissima rottura, soprattutto rispetto a quello che c’era prima, il jazz ,forse, dal punto di vista della struttura musicale, è stato il più rivoluzionario di tutti i generi o quantomeno uno dei generi più innovativi. Detto questo, proprio vista la sua continua capacità di innovarsi e di rinnovarsi, sarebbe riduttivo, visto quanto lo stesso jazz si è evoluto negli anni, pensare a un’idea di jazz fissa e cristallizzata. Bisogna quindi chiedersi quante volte il jazz, cambiando esso stesso, abbia influenzato la città e in che termini.
Inizialmente, il rapporto tra il jazz e la città si è sviluppato grazie all’Università, esattamente sessant’ anni fa, nel 1958, quando dei giovani appassionati di Jazz diedero vita al Festival. La situazione fu quella di un gruppo di amici che imbastì un piccolo festival ma che nel giro di poco si trovò ad ospitare Miles Davis, grazie a una figura storica del BJF (e non solo), cioè Alberto Alberti, che fra l’altro fu il primo a portare Davis in Europa. Si creò così via via un festival di alto livello, uno dei più importanti in tutto il panorama internazionale, non solo in europeo. Tutto si arrestò bruscamente a metà degli anni ’70. In quel momento la politica locale scelse di non valorizzare più il BJF e si lasciò, di fatto, che gli organizzatori da Bologna si spostassero in Umbria, creando, con il supporto delle istituzioni locali, forse un po’ più lungimiranti di quelle felsinee, l’ormai famoso Umbria Jazz Festival, che oggi è tra le più importanti manifestazioni musicali del mondo insieme a Newport, Montreux, Londra. Ad ogni modo, si può sicuramente dire che la culla del Jazz in Italia sia stata Bologna.
E oggi? Qual è il rapporto tra Bologna e il Jazz?
Il jazz a Bologna, oggi, per intenderci quello del Festival che io mi sono ritrovato a gestire, è un genere che è seguito da uno “zoccolo duro” formato da persone dai 50 anni in su, da un pubblico che proviene da una classe sociale medio alta e colta. Io sono ripartito da questo target, ma con l’idea di spostarci sempre di più verso i giovani, di aprirci anche a loro. Per venire davvero alla domanda, “che cosa da il jazz alla città?”, beh è una domanda che noi ci poniamo sempre e, in realtà, dipende tutto da quello che gli organizzatori di eventi jazz offrono. Noi cerchiamo di proporre sempre una programmazione coraggiosa, non solo mainstream, ma che arricchisca il più possibile l’offerta.
Bisogna formarlo il pubblico. Se ogni tanto non lo spiazzi, non lo metti in crisi, non lo fai crescere, sei soltanto un cialtrone. Chiaro, bisogna fare anche delle valutazioni economiche, siamo i primi a farlo, ma non possono esserci solo quelle se si fa cultura.
Il BJF è un festival dal respiro internazionale. Bologna è una città internazionale? Se non lo è, può aspirare a diventarlo?
Bologna sta, lentamente, diventando una città internazionale, e in qualche modo, sotto certi aspetti, penso che lo sia già. Penso al progetto Iperbole che fu molto all’avanguardia, e ovviamente, all’Università, la più antica del mondo Occidentale. Tuttavia, penso anche che ci sia molto da lavorare a livello di mentalità; la città per certi altri aspetti resta ancora molto provinciale. Il problema non è solo bolognese, direi che è generalmente italiano.
In che senso?
L’Italia ha iniziato a vivere il fenomeno migratorio da relativamente poco tempo, soprattutto se lo confrontiamo ad altri paesi europei come la Francia e l’Inghilterra che, per il loro passato coloniale, hanno sempre avuto un rapporto diverso con questo tema. Noi abbiamo sempre avuto un’idea poco aperta sotto il profilo dell’integrazione di culture diverse, non c’è stato storicamente un approccio realmente multiculturale da parte dell’Italia.
In questo Bologna, nel suo piccolo, è stata però più fortunata rispetto ad altre città. Infatti, grazie alle amministrazioni di Sinistra, che rispetto alla Destra ha storicamente avuto un rapporto privilegiato con la cultura, abbiamo goduto di un ambiente che ha sempre accolto in maniera positiva anche l’avanguardia e le diversità. E’ sull’approccio multiculturale che bisogna lavorare per diventare davvero una città internazionale. Tra l’altro in un momento come questo in cui Bologna nell’ultimo anno ha visto una crescita del turismo del 7%…
Ecco, scusi se la interrompo, ma il turismo? Il BJF che rapporto ha con il turismo? E lei più in generale come vede questo fenomeno per la città?
L’amministrazione ha lavorato benissimo sul turismo, questo bisogna dirlo. Bisognerà però essere molto attenti e molto capaci nella gestione della trasformazione della città, nella “fase due” di questa crescita turistica. Io per il Festival ho tutto l’interesse che Bologna sia una meta turistica, anche perché già ad oggi abbiamo un 20% di pubblico che proviene da fuori. Ma, allo stesso tempo, non voglio una città completamente assoggettata al turismo, non voglio che il turismo diventi una forma di terrorismo e non voglio che disintegri la città con la “gentrificazione”. Penso a Barrio Alto, il Pratello di Lisbona per intenderci, un quartiere bohemien, che ,a colpi di Airbnb, si sta svuotando, ed è diventato un quartiere di condominii pieni di bed&breakfast, con i cittadini locali che si sono spostati in periferia.
E’ questo che bisogna evitare, non si deve trasformare un posto autentico in una vetrina vuota. Un turista per quanti anni torna in un posto che è morto? Il turismo offre tanto alla città, la arricchisce molto ma ,allo stesso tempo, bisogna essere cauti e saperlo gestire.
Quale è il vostro rapporto con le altre realtà locali del vostro settore? Bologna è una città in cui si riesce a fare network in maniera proficua e produttiva?
Devo dire che noi siamo stati particolarmente bravi nella collaborare con altre realtà locali. A livello teorico, viste le piccole dimensioni della città, sarebbe facile fare network, tuttavia, nella pratica, anche a causa della mentalità provinciale di cui parlavamo prima, spesso le realtà pensano a coltivare il proprio piccolo orto e a condividere poco le loro esperienze e le loro conoscenze. C’è, purtroppo, una diffusa tendenza a dividersi in parrocchie che, talvolta, paralizza la città. Noi non abbiamo mai coltivato questa mentalità, ci siamo sempre disinteressati di questo genere di dinamiche e ci siamo presentati a parlare con tutti, cercando di mostrare a chiunque le centomila possibili chiavi di accesso e di lettura del jazz.
Devo dire che questo è piaciuto e, coerentemente con la nostra idea, in occasione del nostro sessentannale, quest’anno, abbiamo deciso di non festeggiare i sessant’anni del Bologna Jazz Festival ma di tutto il Jazz a Bologna: ci siamo da poco incontrati con tutte le realtà che si occupano di questo genere a Bologna. Qualche anno fa si sarebbe fatto a gara per chi faceva l’evento per primo, a chi avrebbe avuto uno sponsor e chi no. Invece no, c’è posto per tutti, fare network è questo, rendersi conto che a volte è bene rinunciare a un pezzo del proprio spazio ma per condividerlo e farlo crescere molto di più e per avere indietro qualcosa di molto più grande.
Vi siete allargati anche a Ferrara e Modena. Come giudicate queste due esperienze fuori dalle mura?
Il nostro direttore artistico, Francesco Bettini, è di Ferrara. Lui gestisce uno dei migliori jazz club d’Europa, Il Torrione, un vero gioiello, che si trova proprio lì nella città estense e che propone una programmazione veramente coraggiosa e di alto livello. Ferrara da questo punto di vista risponde molto bene, il Torrione è per noi un punto di riferimento.
Tra l’altro, Bologna non è una città Metropolitana? Se si vuole dare un senso alle parole è giusto ragionare in questi termini, è giusto allargarsi verso i comuni vicini. In 40 minuti di treno si arriva a Firenze e non ci allarghiamo a Ferrara e Modena? Anche a Modena abbiamo cercato di replicare quello che abbiamo creato a Ferrara, anche lì in un ottimo jazz club, ci crediamo davvero molto in questo progetto. Anche se non è facile far muovere il pubblico da una città all’altra ma la connessione al momento sta funzionando molto bene.
Allargando la prospettiva al di là di Bologna e parlando più in generale, quanto è importante la presenza dell’attività privata nel settore cultura? E quali devono essere i rapporti tra istituzione e privati?
Prima di tutto penso che serva il sostegno delle istituzioni. Serve per garantire la sincerità del prodotto, per rendere possibili anche progetti d’avanguardia senza obbligarli a fare grandi numeri. L’avanguardia talvolta può essere vista come autoreferenziale e fine a sé stessa, come un binario morto che non va da nessuna parte, altre volte volte ,però, è il motivo per cui nasce un fenomeno di massa anni dopo. L’istituzione non può esimersi dalla partecipazione a questo genere di processi culturali. E questo genere di processi non può essere garantito dalle sole imprese private che, giustamente e legittimamente, hanno come fine primo quello del profitto.
Detto questo le imprese private che decidono di investire in attività culturali dovrebbero avere accesso a degli importanti sgravi fiscali, o ancora, in un’ipotesi più estrema, una parte delle loro tasse dovrebbe essere devoluta ad esse automaticamente. In questo modo vedremmo molte attività culturali crescere, con conseguenti aumenti di spesa, assunzione di nuovi collaboratori o personale ecc. ecc. Si attiverebbe un ciclo virtuoso per tutti, anche per lo Stato stesso che vedrebbe poi rientrare ciò che ha investito da altre parti. Il Ministro Franceschini in questo senso per il jazz ha fatto molto, è stato creato un fondo specifico per il Jazz ma c’è ancora molto da fare.
E il rapporto tra marketing è cultura?
C’è un grande dibattito su questo tema, è molto difficile fare marketing e allo stesso tempo offrire un prodotto culturale onesto e sincero. Per questo penso, come ho detto prima, che, al di là degli investimenti privati, che comunque restano fondamentali, lo Stato debba e possa fare di più. Nessuno ti sponsorizza più per mettere il bollino sui volantini e sui manifesti, c’è sempre qualcosa da dare in cambio. E’ un equilibrio molto complesso, l’Istituzione deve rimanere centrale per questo.
Per chiudere torniamo alla nostra città. Lei lavora da quando era giovanissimo nell’ambiente del cinema. Bologna, in questo campo, ha qualcosa da dire?
Il cinema è a Roma e a Milano. Punto. Se vuoi fare il professionista nel mondo del cinema devi spostarti lì. O fai delle scelte di sacrificio pazzesche, come me, che faccio avanti e indietro continuamente, cosa complessa soprattutto avendo famiglia o figli, oppure vai là. In questo senso, invece, ha lavorato molto bene il Piemonte, una meta che non era tra le prime scelte per girare film e che invece è diventato un polo cinematografico grazie a interventi e investimenti della Regione. Allo stesso modo Regione Puglia ha attratto numerosi film mediante un fondo ad hoc e, fortunatamente, da qualche anno sono arrivati anche in Emilia-Romagna leggi e incentivi per il cinema dalla Regione. E’ da tanti anni che noi del settore chiediamo abbiamo chiesto alle istituzioni di investire. Ogni euro che investi in una produzione sono quattro euro che guadagni, per realizzare un film servono tante maestranze, persone che per girare stanno in città per dei giorni e lì devono mangiare, dormire e spendere, automaticamente creano indotto. Detto questo, a Bologna, ci sono ottimi corsi di formazione ma se le persone, dopo essersi formate, devono scappare e andare a Roma e Milano col coltello tra i denti, qui non si svilupperà mai niente di solido. Io trovo che Bologna cinematograficamente offra tanto sia come estetica della città che come realtà piena di sfaccettature e in cui si trovano molte particolarità. E comunque pensi che non c’è un vero teatro di posa a Bologna, o meglio, se si ha necessità di realizzare una scena al chiuso c’è n’è uno che non è insonorizzato ed è a metà tra la ferrovia e le rotte dell’aereporto…
Non chiediamo Cinecittà, ma anche a Torino c’è un polo cinematografico importante, basterebbe una struttura come quella. In Emilia-Romagna avrebbero tutti voglia di venire a girare ma non ci sono le strutture. C’è molto da lavorare su questo.
Noi usiamo salutare i nostri ospiti chiedendogli di proporci un brano musicale, una canzone o una traccia da loro proposta. Lei come ci saluta?