Noi l’Italia non la conosciamo. Sappiamo a memoria il lungo elenco dei suoi problemi strutturali, e magari abbiamo anche idea di come affrontarli, ma non siamo nemmeno in grado di indicare le preoccupazioni che affliggono le famiglie nelle nostre periferie. Siamo gli aristocratici europei, che nei secoli passati passeggiavano per la penisola leggendo Orazio e credendo di essersi inebriati di spirito italico. Non si può dire di conoscere un paese se non si capisce cosa prova il suo popolo. Che come ogni popolo ha due caratteristiche fondamentali: apprezza chiunque lo stia ad ascoltare (possibilmente dandogli ragione), e difficilmente offre una seconda possibilità quando si sente tradito. A dire il vero, in democrazia ce n’è anche una terza: quando il popolo vota, si prende le sue rivincite. Tutto normale, che come sempre non vuol dire giusto: le rivincite curano l’orgoglio, ma non i problemi, che anzi si ammassano fino a franarci addosso facendoci più male di prima.
Però possiamo consolarci: non siamo più i soli a non conoscere l’Italia. Molti si sono uniti a noi in questi anni in cui nulla sembrava essere cambiato, mentre tutto è stato stravolto. Oggi ci fanno compagnia una schiera infinita di quotidiani, giornalisti, intellettuali, commentatori, media di vario calibro. Interpretano nicchie sempre meno rappresentative, e influiscono su un’opinione pubblica sempre più ristretta. Non è colpa loro se il mondo è cambiato rapidamente, ma di certo non si sono adattati. E se non lo faranno in fretta, i danni ricadranno su tutti noi.
Globalizzazione, digitalizzazione e disintermediazione lavorano in perfetta armonia. La globalizzazione, immatura e incontrollata, ci consegna un mondo fatto di pochi vincitori (noi siamo fra questi) e di molti vinti. La digitalizzazione offre ai vinti innovative forme di comunicazione. L’effetto è l’ennesima disintermediazione: inascoltati, delusi e frustrati, i vinti non chiedono coerenza nelle risposte, ma attenzione per le loro domande. Perciò comunicano su canali nuovi e incontrollati, si riscoprono come un unico popolo, e attendono un leader che ricordi loro come funziona la democrazia. Il nuovo equilibrio si mantiene per qualche tempo, ma presto anche il nuovo leader diventa vecchio: viene triturato dalla velocità con cui le informazioni circolano e sbugiardato dalla semplicità delle promesse che inevitabilmente non potrà mantenere. Domenica i vinti si sono presi la loro rivincita, nel segreto dell’urna. La “sinistra”, sempre meno interessata ad ascoltare le loro opinioni, continua a morire sotto i colpi della disintermediazione. Matteo Renzi ha cercato di trovare una nuova chiave di lettura, e ha fallito. La maggioranza dei presunti leader che affollano le sue sponde è affondata con lui, e a differenza sua nemmeno ha ancora capito la gravità del problema.
Conosciamo i problemi dell’Italia e, a differenza di altri, abbiamo anche alcune idee realistiche su come risolverli. Ma questo paese, nel profondo, non lo conosciamo. E, d’accordo, da Matteo Salvini è inaccettabile prendere lezioni. Ma dal Movimento 5 Stelle qualche ora di ripetizione potremmo accettarla, per imparare di nuovo come si fa ad ascoltare tutti i cittadini, e non solo quelli a cui piace ascoltare noi. Prima che anche Luigi Di Maio venga sommerso tra i flutti del dissenso, e prima delle prossime elezioni. Forse c’è ancora tempo, aspettando che il mondo cambi ancor più radicalmente. Perché presto succederà.
Alessandro Cillario
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